venerdì 1 gennaio 2016

Vittorio Cecchi Gori, il Laureato

Le spoglie mortali di Mario Cecchi Gori hanno appena trovato il luogo dell’eterno riposo nell’antico cimitero di San Miniato che Firenze comincia ad interrogarsi, apprensiva: la Fiorentina è rimasta in mano a Vittorio. Quello della balaustra (ricordate l’espressione sconsolata del padre?), quello del licenziamento di Gigi Radice, quello che al Processo di Biscardi per difendersi dalle accuse di impulsività, intemperanza, inadeguatezza non trova di meglio che dichiarare urbi et orbi: guardate che io sono un laureato.
VCG è figlio d’arte, e questo non è colpa sua. Gli tocca però il destino di tanti figli d’arte, oscurati dall’ombra del padre. La madre Valeria, diventata vedova, si ritira in un dignitoso ruolo di presidentessa onoraria e cerca come può di arginare saltuariamente un figlio a cui la vita ha concesso forse troppo in termini di risorse materiali, e troppo poco in termini di risorse umane per gestire quel ben di Dio. Ma più di tanto non può neanche lei.
Marione, piantato in asso sul più bello da un cuore che ne aveva sopportate tante, gli ha lasciato una Fiorentina in serie B ma attrezzata come una corrazzata che naviga in una rada affollata di barche a vela. Avendo trattenuto tutti gli “eroi” super pagati della retrocessione, tornare nella massima serie è uno scherzo. Firenze quasi si diverte ad affrontare la cavalcata nella serie cadetta, la seconda della sua storia. E quando torna in A si sente autorizzata psicologicamente a riprendere discorsi e sogni di grandezza lì dove il gol dell’udinese Desideri a Roma li aveva interrotti.
Già, Marione ha lasciato tante cose a questa Fiorentina. Un parco giocatori invidiato da tante altre società, comprese le dirette concorrenti con cui la Fiorentina formerà il circo delle Sette Sorelle, le dominatrici del calcio italiano ed europeo nel periodo d’oro del pallone nostrano. Un allenatore emergente ed ambizioso come il romano Claudio Ranieri, capace di guidarla senza infingimenti dallo Stadio degli Ulivi di Andria al Camp Nou di Barcellona. Uno staff di manager che finché le risorse lo consentono ne sbaglia veramente poche: l’unico 10 di Firenze, Giancarlo Antognoni, è diventato un talent scout come pochi; il vecchio braccio destro Luciano Luna, sopravvissuto egregiamente alla giungla di Cinecittà, si butta a capofitto in quella del calciomercato (arriva, tanto per fare un nome che vale per tutti, Manuel Rui Costa, un altro numero 10 che Firenze non scorderà mai); Ugo Poggi, sanfredianino DOC, imprenditore fiorentino di successo, proprietario di sale cinematografiche, presidente della seconda squadra cittadina, la mitica Rondinella, amico di Vittorio fino alla fine cerca di salvarlo da tutto, compreso da se stesso. Senza riuscirci neanche lui.
Ma soprattutto Marione ha lasciato al figlio una situazione economicamente invidiabile, un impero che basterebbe solo limitarsi a gestire. La casa di produzione cinematografica Mario & Vittorio Cecchi Gori grazie all’alleanza con Silvio Berlusconi che si traduce nella Pentafilm è diventata la più potente d’Europa,  in competizione addirittura con le Majors americane. A Vittorio non manca nulla insomma per portare Firenze e soprattutto la Fiorentina lassù dove finora hanno solo sognato di andare. O di ritornare. E invece…..
Vittorio sembra partire bene. Si butta in politica come senatore eletto nelle file del Partito Popolare. Nel 1994 è grazie alla sua uscita dall’aula di Palazzo Madama che Silvio Berlusconi riesce ad ottenere la fiducia al suo primo governo. Un bel credito da riscuotere al momento giusto. Ma Vittorio medita su altri orizzonti. Come Pontello dieci anni prima aveva dichiarato di voler spazzare via i “metalmeccanici di Torino”, la FIAT di Agnelli, VCG rompe ben presto platealmente il sodalizio con il Cavaliere e lo sfida in campo aperto anche sul prato verde.
Sono gli anni in cui i suoi film mietono successi e premi a ripetizione, dal Postino, al Ciclone, alla Vita è bella. Sono gli anni in cui le sue squadre sfidano il Milan stellare di Fabio Capello. Il suo gioiello più prezioso, Gabriel Batistuta, straccia tutti i record fiorentini e nazionali eclissando nomi leggendari come quelli di Kurt Hamrin ed Ezio Pascutti. Sono gli anni in cui si lancia nella sua impresa più ambiziosa, quella che probabilmente gli risulterà fatale: il terzo polo televisivo.
Ai primi di gennaio 1997, mentre la Fiorentina vola in Coppa delle Coppe dopo aver vinto la Coppa Italia l’anno precedente ed aver battuto il Milan a San Siro nella finale di Supercoppa italiana (con Batistuta che dichiara in mondovisione l’amore per sua moglie Irina), accade un altro fatto incredibile, epocale. Per la prima volta una partita della nazionale azzurra non è trasmessa dalla RAI, ma da una televisione privata. C’era stato, è vero, il precedente del Mundialito 1981 trasmesso da Mediaset, ma si trattava di una kermesse amichevole. Stavolta si tratta nientemeno che di Inghilterra-Italia, valevole per la qualificazione al Mondiale di Francia 1998. Gli azzurri sbancano Wembley con gol di Gianfranco Zola, Telemontecarlo di VCG sembra sbancare definitivamente il duopolio RAI-Mediaset che dopo la legge Mammì sembrava inattaccabile.
E’ un atto di guerra che viene raccolto dall’avversario senza mezzi termini. A destra, non rimane più nulla dell’antica amicizia con Berlusconi. A sinistra, le amicizie sono volatili. Quando l’impero di Cecchi Gori si rivelerà un colosso dai piedi d’argilla, nessuno nell’Ulivo di Prodi e D’Alema muoverà un dito per aiutare il cinematografaro assediato. Anzi, qualcuno si muoverà per trovargli un successore alla proprietà della Fiorentina a costo zero, mentre ancora il “paziente” e tutt’altro che morto.
Dopo una semifinale di Coppa delle Coppe persa immeritatamente contro un Barcellona che ha poco da invidiare a quello attuale, Vittorio saluta Ranieri tentato dalla Liga spagnola e si affida all’outsider Malesani. Il pubblico sembra gradire (con quella squadra del resto è difficile annoiarsi, perfino Spadino Robbiati sembra un inarrivabile fuoriclasse), finché proprio su una sostituzione di Robbiati al patron saltano di nuovo i nervi come cinque anni prima, e Malesani va a raggiungere Radice nell’elenco degli esonerati viola più a spintoni che con la prevista raccomandata.
Vittorio però ha promesso lo scudetto. Batistuta scalpita, Firenze comincia ad andargli stretta, lui vuole vincere (e magari guadagnare di più, del resto a parte Ronaldo il fenomeno è senza dubbio il più forte attaccante del mondo in quel momento). I gioielli di Firenze cominciano a fare gola alle dirette concorrenti. E’ il momento di provarci, a Batistuta e Oliveira viene affiancato un altro talento immenso, quello di Edmundo. In panchina va a sedersi il decano degli allenatori italiani vincenti: Giovanni Trapattoni.
Sembra finalmente il tanto atteso e già rimandato appuntamento con la storia. Ma non si va oltre il titolo di campioni d’inverno. Batistuta si rompe il ginocchio nello scontro diretto con il Milan. Edmundo rompe con Cecchi Gori partendo per il carnevale di Rio. Cecchi Gori rompe con Firenze portando a casa dal mercato di gennaio il solo onesto ma insufficiente Fabrizio Ficini. I sogni di gloria viola finiscono qui. L’anno dopo uno sfiduciato Trapattoni trascina la banda viola (a cui si sono aggiunti i prodi Enrico Chiesa e Pedrag Mijatovic in attacco ma nessuno a centrocampo e in difesa) fino alla beffa del Mestalla di Valencia, dove Mendieta segna un gol che non avrebbe dovuto esistere (annullato incomprensibilmente a Rui Costa lo splendido calcio di punizione del pareggio) e che purtroppo elimina la Fiorentina allo stesso modo di come succederà 10 anni dopo a Monaco di Baviera.
Non c’è tempo per piangere. In estate Batistuta firma con la Roma, e a ottobre firma anche un dolorosissimo gol dell’ex all’Olimpico. La banda viola, affidata prima a Fatih Terim e poi al carneade Roberto Mancini (in deroga a tutto il mondo), vince la Coppa Italia per la gioia di Manuel Rui Costa e della signora Valeria. Poco dopo la CO.VI.SOC e la Guardia di Finanza presentano il conto. Per iscriversi a quello che sarà l’ultimo campionato dell’A.C. Fiorentina, VCG deve vendere Toldo e lo stesso Rui Costa a Inter e Milan. Per scansare guai peggiori con la giustizia deve dire che sul vassoio tra lui e Valeria Marini quella mattina a palazzo Borghese a Roma le forze dell’ordine trovano zafferano piuttosto che cocaina.
Possiamo pensare di rivivere tutto nella vita, ma non quella stagione 2001-02. Che parte con l’infortunio di Enrico Chiesa, la farsa di Ottavio Bianchi, il tentativo disperato di Ugo Poggi di riprendere in mano le redini di una società allo sbando. E si conclude con una retrocessione in B decisa già a Pasqua, che in estate diventa addirittura declassamento in C2 dopo un fallimento tra i più fantasmagorici della storia del diritto civile italiano. Per pochi milioni, VCG viene condannato a morte (mentre ad altre delle Sette Sorelle sarà riservato ben altro trattamento, con “spalmature” varie). Nessuno si muove a salvarlo, si muove solo il Partito Democratico della Sinistra che da tempo ha individuato il successore e che il 1° agosto spedisce il sindaco Domenici sullo yacht di Diego Della Valle a firmare l’accordo che vale il futuro, anzi la sopravvivenza della Fiorentina.
Resta una epopea iniziata nei giorni dei sampietrini che volavano a Piazza Savonarola per la cessione di Baggio da parte dei Pontello, e che terminano sempre fuori della sede viola per l’ultima volta in quella Piazza, mentre la gente accaldata e disperata apprende che il fax della banca colombiana è una bufala, e poco dopo che Firenze non ha più una squadra di calcio.
Resta quella foto, di Vittorio sulla balaustra e di suo padre che lo guarda sconsolato. Ingiallita ormai dal tempo, e da tante altre storie trascorse. Ma che pronuncia la sentenza sulla storia della Fiorentina di Cecchi Gori più di ogni atto giudiziario sopravvenuto dopo. Sulla bancarotta fraudolenta Firenze ha preferito sospendere il giudizio, visto che neanche il Tribunale a ben vedere è uscito dalle vicissitudini di quell’epoca con le ossa del tutto intere. Per quella notte invece in cui si andò a dormire senza più un pallone con cui e su cui sognare, Firenze il Laureato forse non lo perdonerà mai.

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