venerdì 29 aprile 2016

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Il mistero Della Valle

L’errore più grande che si può commettere è quello di considerare Diego Della Valle un’entità maligna, una specie di Saruman del Signore degli Anelli. E’ semplicemente un industriale che ha avuto successo al di là dei propri meriti, perché ad un certo punto le Tod’s facevano moda, e gli italiani avevano da spendere per comprarsele.
Quando prese la Fiorentina, dicono che suo padre Dorino si adirò non poco. Il calcio per la famiglia di produttori di scarpe di Casette d’Ete era il classico passo più lungo della gamba. Una macchina mangia-soldi che il patriarca dei Della Valle temeva assai. Per una volta, Diego fu veramente il genio che qualcuno dice. Vide più lungo. La visibilità che gli dette la Fiorentina fu strepitosa. Il gruppo Della Valle decollò verso mercati che fino a quel punto aveva potuto solo sognare. E magari per qualche anno sognò addirittura di poter sfondare anche nel calcio.
Poi successe quello che successe. Il sistema si difese. Diego non aveva in mano una scala reale, ma una semplice scala. Qualcun altro aveva full, o se non l’aveva fu bravo a bluffare, come sempre. Lui rimase a secco per una serie di “piatti”, si prese paura e passò la mano al fratello, fermo restando che i cordoni della borsa li manteneva lui. E per lui, il ragionier Cognigni.
Non è malvagio, Diego Della Valle. Semplicemente crede di poter gestire la Fiorentina così come gestisce le altre sue imprese. Mettendo a capo un “contabile” che tenga i conti sotto controllo. Gestendo i giocatori buoni come una partita di scarpe ben riuscita: quindi da vendere subito al miglior offerente. Limitando gli investimenti ed i coinvolgimenti: Mammana era troppo, la Champion’s è troppo, lo scudetto non ne parliamo. L’Europa League vediamo, ma mi sa tanto che anche quello è un balocco che ha stancato il suo possessore.
Pasqual e Tomovic vanno bene, chiedono poco. Un terzino di ruolo costerebbe molto di più, per questo sono dieci anni e passa che non arriva. Borja e Ilicic sono arrivati al limite, nessuna meraviglia se saranno venduti, più di questo sangue da queste rape non si spreme. Babacar e Kalinic vanno via, quando ricapita un bischero che te li paga a peso d’oro? Si, ma l’anno prossimo di punta chi gioca? Un bischero si trova, e poi….mica dobbiamo lottare per lo scudetto!
Gli allenatori……Uno vincente costa troppo, meglio puntare su un emergente, a condizione di liberarsene appena comincia a rompere i coglioni perché vuole vincere. Prandelli, Montella, Sousa…..l’anno prossimo Maran, o il ridimensionato e senza pretese Mazzarri. Già un Cavasin ormai costerebbe troppo, i soldi a Casette d’Ete mica si zappano nell’orto!
Non è cattivo Diego Della Valle, non è un pistola che non conta nulla suo fratello Andrea. Sono due tizi capitati in un gioco che se lo vuoi giocare come si deve è più grande di loro. Se ti limiti a giocarlo per la visibilità, allora ok. Meglio di loro non c’è nessuno.
Dice il saggio: se vanno via chi ci compra? I cinesi? Speriamo, visto che prima o poi si comprano tutto. I “bottegai” di Firenze? Ma per l’amor di Dio…….

mercoledì 27 aprile 2016

La nostra dimensione

Slitta l’incontro previsto a breve tra Andrea Della Valle e Paulo Sousa. Malgrado l’inverno sia finito, è giunto il momento di tirare fuori gli slittini. Da qui alla fine di maggio Sousa, Della Valle 1, Della Valle 2, Cognigni, Rogg, Prade’ daranno vita ad un nuovo entusiasmante campionato mondiale di bob a 2, 3, 4, 5, 6. Oppure 0, a seconda delle evenienze più probabili.
C’è in gioco la nuova stagione dell’Acf Fiorentina, quella a cui si riferisce il gustoso post che va per la maggiore su tutti i social network dove si parla di viola. KEEP CALM & SI VINCE I’ PROSSIM’ANNO. Settima edizione. Alla manifestazione sono attesi tutti i principali media sportivi e non, le più grandi firme del giornalismo cittadino. Tutte con il loro armamentario di luoghi comuni sulle cause fisiche dello slittamento: telefoni che non prendono, mogli isteriche, segretarie che si scordano di passare le chiamate, server mail che non funzionano, aerei dirottati, chiamate perse, summit, slittamenti, ore decisive, si dice che.....
Siamo seri. Anche perché, dopo 14 anni, chi ha più voglia di scherzare? Si chiude l’ennesima stagione a zero titoli, si chiude malamente, dopo una Coppa Italia lasciata al primo turno al Carpi, una Europa League dove in un anno il Tottenham ci ha preso più metri di distacco che Cristiano Ronaldo a una lumaca, un campionato dove malgrado una partenza bruciante con undici punti dalla Juventus siamo riusciti a concludere in caduta libera con un quinto posto per il quale dobbiamo ringraziare un Milan ancora più insipido di noi ed un Berlusconi vistosamente senescente, mentre i punti dalla Juventus sono diventati 26, ma a favore di quest’ultima. E domenica sera s’è visto perché. Il tutto condito di figure barbine, “mammanate” varie.
Siamo al momento fatidico della stagione, quello in cui le squadre decidono il loro futuro e impostano il loro mercato estivo. Proprio quello in cui proverbialmente i Della Valle “autofinanziatori”, o per meglio dire (secondo una terminologia più calcisticamente appropriata) “braccini”, incartano puntualmente l’avvenire della loro creatura meno prediletta, la Fiorentina, lasciando occupare lo spazio che dovrebbe essere riservato alla programmazione a polemiche da cortile. Un uomo politico del passato, Rino Formica, definiva tali polemiche (ovviamente in riferimento a questioni molto più serie) roba da “comari di ballatoio”. Il livello, rappresentato con immagine efficacissima, è proprio quello lì.
Quest’anno tocca a Sousa. Va, resta, si riserva di decidere dopo il “faccia a faccia” con DV, ha già deciso, vuole garanzie, vuole un ruolo alla Ferguson. Vuole almeno un terzino (vivaddio). E’ una di quelle repliche che passano una volta al mese sulle PAY TV. Sappiamo già come va a finire, accidenti se non lo sappiamo, è oltretutto un REMAKE di vecchie pellicole dove recitavano Cesare Prandelli e Vincenzo Montella.
Ad un certo punto il protagonista contro tutto e contro tutti parte per le vacanze. Delle due l’una, o ha già altre offerte e allora telefona dalle vacanze per comunicare che si è rotto i coglioni e buonanotte suonatori, oppure è ancora senza alternative e allora farà sì che i suoi ombrosi datori di lavoro perdano i nervi, lo esonerino e continuino a passargli il lauto stipendio. Fermo restando che i coglioni se li è rotti comunque, e ne ha ben d’onde (atteggiamenti e scelte tecniche sue discutibili a parte), perché a gennaio era primo e ultimamente dura fatica a fare le convocazioni per la domenica successiva, manco fosse un coach del minibasket.
L’abbiamo buttata in scherzo. Dopo aver visto la Juve festeggiare l’ennesimo scudetto nel nostro stadio, che altro possiamo fare? Dopo aver sentito Evra dire, “la nostra rimonta è cominciata quando ci siamo resi conto che in testa al campionato c’era la Fiorentina”? Dopo aver constatato che in fondo come dargli torto per quello che poi si è visto, e che tutto sommato si fa miglior figura a stare zitti? Dopo aver sentito il patron (il più piccolo dei due, quello che si ostina ancora a venire allo stadio) uscirsene con un “sono sereno, e orgoglioso di questa squadra”?
Scherziamoci sopra, ci sono cose più serie nella vita. Ma dato che ora si parla di queste e queste ci interessano, diciamo chiaramente che per la prossima stagione più che un nuovo allenatore (si parla di Maran, con il dovuto rispetto sarebbe il caso di una pubblica riabilitazione di Vierchowod e Cavasin, in tal caso) servirebbe un nuovo proprietario. Tenendo presente che se anche fossimo così fortunati (ma la fortuna in genere aiuta gli audaci, non chi si accontenta della “propria dimensione”), avremmo davanti un anno, un anno e mezzo buono di triboli. Vendere una società di calcio al giorno d’oggi non è cosa semplice, e richiede una tempistica del genere, anche se tutto va bene.
Tra l’altro, i Della Valle investivano col braccio rattrappito quando dicevano di nutrire grandi ambizioni. Ve li immaginate nella stagione in cui ufficialmente annunciano di passare la mano? Roba da brividi, meglio non pensarci. Oltretutto sono ombrosi, permalosi, vendicativi.
Meglio farseli venire, i brividi, a seguire le ultime miglia della cavalcata leggendaria di Claudio Ranieri e del suo Leicester in Premier League. YES WE CAN, dicono gli inglesi. NO ‘UN SI POLE, rispondono da Firenze tutti coloro che si sono convinti che questa è la nostra dimensione.

Befani vendeva stracci a Prato, Baglini vendeva inchiostri a Firenze Nova. Domandatelo a loro, quando li rivedrete, qual era la nostra dimensione.

lunedì 25 aprile 2016

La Juventus festeggia lo scudetto al Franchi

Il calcio è un gioco che si pratica in undici contro undici, e alla fine vince la Juventus. L’aforisma è di Gary Lineker, il celebre attaccante della nazionale inglese degli anni 80, che per la verità l’aveva coniato a proposito della Germania. Ai suoi tempi infatti, i bianchi d’Inghilterra soccombevano regolarmente di fronte a quelli tedeschi, comunque fosse andata la partita. Ma al punto in cui stanno le cose, può essere tranquillamente riadattato al campionato italiano, e soprattutto a quella che una volta a Firenze veniva definita la madre di tutte le partite.
La Juventus vince al Franchi la ventiquattresima partita su venticinque e mette le mani sul quinto scudetto consecutivo. La Fiorentina, alla fine dei salmi, esce dal campo con la consapevolezza di essere stata qualcosa più che uno sparring partner di lusso. Ma, il calcio è un gioco che se non la butti dentro tutto il resto non ha senso, aggiungiamo a corollario del teorema di Lineker. E con la Juventus di questi tempi gli sbagli si pagano a carissimo prezzo.
Esistono vari modi per soccombere alla Juve che trita il campionato da cinque anni a questa parte come fosse un cumulo di sassi. C’è la modalità “notte della vergogna”, scendo in campo con la gamba molle e la testa altrove come il 17 febbraio 2012 e ne prendo cinque contro zero. C’è la modalità “vittoria morale ai punti”, faccio un partitone d’assedio per novanta minuti con la Juve ridotta al catenaccio come il 25 settembre sempre 2012, ma non la butto dentro nemmeno a piangere e alla fine lo 0-0 è come avere perso. C’è la modalità “non ci provo nemmeno” come l’anno scorso, 0-0 anche in quel caso ma non giocato, squadre bloccate indietro e guai a chi tira in porta, o come l’altro 0-0 dell’anno di Sinisa Mihajlovic.
Poi c’è la modalità preferita, “gioco bene (anche perché altrimenti la gente mi assedia nello stadio fino alle tre di notte come ai vecchi tempi) ma non la butto dentro nemmeno su rigore e prima o poi faccio la sciocchezza che regala i tre punti alla Juve”. Andò così il primo anno di Prandelli, rischiò di andare così perfino il 20 ottobre 2013, se non fosse intervenuto San Giuseppe (Rossi) altro che 4-2 storico. E’ il modello scelto anche quest’anno, collezione autunno-inverno 2015-16.
La Fiorentina esce dal campo mentre i bianconeri festeggiano lo scampato pericolo e virtualmente anche il trentaduesimo scudetto (o trentaquattresimo sul campo, come direbbe Andrea Agnelli che se la ride sotto baffi e barba in tribuna). Rideva anche Andrea Della valle, ad un certo punto. Chissà, forse per la constatazione di aver trasformato finalmente questo Fiorentina – Juventus in una partita normale come lui sognava, e nulla più. Il che non è detto che a gioco lungo non si risolva in un bene (soprattutto con giocatori più efficaci e con la società in altre mani). Per adesso, la constatazione reale è che questa è diventata una di quelle partite che normalmente la Fiorentina butta via. Dopodiché, stagione finita, tutti al mare e arrivederci all’anno prossimo.
Gioca bene peraltro la squadra viola, tecnicamente meglio dei plurititolati avversari. I bianconeri quest’anno, rispetto al recente passato, badano più al sodo. Il possesso palla, che è un po’ come la percentuale dei votanti alle elezioni, dice 62 Fiorentina, 38 Juventus. I tiri, tra specchio della porta e fuori, dicono 21 a 6. Il risultato invece dice 2-1 per gli ospiti, che di quei sei tiri ne mettono almeno due alle spalle di Tatarusanu, che non si fanno trovare mai disattenti, in sottonumero, in surplace o a pensare a chissà diavolo cosa, tranne che nell’occasione che costa loro il momentaneo, infinitesimale pareggio. Anche i Bonucci sbagliano, sarebbe un ottimo titolo da sceneggiato.
Stasera non sbaglia Sousa, volente o nolente. La posta in gioco è troppo alta, la gente viola non perdona scherzi contro la Juventus. Va in campo chi può dare il meglio, in questo scorcio finale di stagione senza quasi ricambi, e va nella zona del campo dove rende meglio. Così, fine delle polemiche contro Astori, che ritorna a fianco di Gonzalo. Alonso a sinistra, Tello a destra e Bernardeschi nel mezzo. Ilicic tra il centrocampo superstite di Borja e Badelj e un Kalinic che si spera sulla via della resurrezione. C’è poco altro da inventarsi a questo punto, questo passa il convento, questo deve andare contro lo Schiacciasassi campione d’Italia.
Per buona parte del primo tempo i sassi li schiaccerebbe la Fiorentina, se avesse una punta più affilata, un po’ più di fortuna ed una arbitraggio più attento. Il paradosso è che oggi il sig. Paolo Tagliavento della sezione di Terni, ritenuto solitamente un direttore di gara con un occhio di riguardo per le zebre, oggi non arbitra complessivamente affatto male, beccandosi al termine le critiche proprio delle zebre stesse. Unico errore, per quanto clamoroso, è l’annullamento del gol di Bernardeschi al ’20. Il replay mostra il numero 10 viola tenuto in gioco da Barzagli sulla destra in un modo assolutamente visibile sia all’arbitro che al guardalinee. Non è dato sapere che partita avremmo visto con i viola in vantaggio. Ma il tempo per andarci lo stesso comunque ci sarebbe, e nel prosieguo di Tagliavento non ci sarà da lamentarsi affatto.
Il giovane Federico è il primo a non deprimersi. Anzi, oggi farà una gran partita, una di quelle che ha dimostrato essere nelle sue corde. Il gioiellino viola rivaleggerà con quello bianconero Dybala per numeri e impatto sulla partita, sempre nel vivo dell’azione. Il gol annullatogli era tra l’altro un gran gol. Eccolo un minuto dopo di nuovo a tu per tu con Buffon, imbeccato da un Kalinic che oggi almeno riesce a fare il rifinitore. Barzagli gli devia il tiro quanto basta per indirizzarlo verso un clamoroso autogol, se il portiere della Nazionale non riuscisse a smorzarlo quanto basta con la punta della suola.
La Fiorentina arremba, la Juve aspetta tranquilla sulla propria tre quarti in attesa di colpire in contropiede. La partita di andata qualcosa le ha insegnato. Lascia il palcoscenico ai viola aspettando il momento in cui abbasseranno inevitabilmente ritmo e guardia. E il momento arriva al ’39. Dybala alza quasi a campanile per il testone di Pogba. Il francese, che quando cammina normalmente sembra avere problemi motori ma quando galoppa sul campo è uno spettacolo della natura, fa da torre ad occhi chiusi per il compagno che sa essere in arrivo a centro area. E’ Mario Mandzukic, lo stesso che ruppe l’equilibrio nel match di andata. Allora irrompendo di desto, oggi di sinistro al volo. Nell’occasione, l’altrimenti ottimo Gonzalo è segnalato a Chi l’ha visto.
Buonanotte Fiorentina? Il match prende la solita salita, in modalità “anche quest’anno è andata”. La Fiorentina però stasera è doverosamente motivata. Almeno fino all’area piccola. Tello, Bernardeschi, lo stesso Ilicic provano a sfondare in tutti i modi. Al ’43 sembra il momento buono, la Juve senza Chiellini non è impenetrabile. Alonso si trova su traversone da destra la palla comodamente sulla testa e mezza porta vuota. Il replay, su cui recrimineranno i viola, mostra un Rugani che trattiene l’ala sinistra spagnola della Fiorentina. Sta di fatto che è il primo gol che non è ammissibile sbagliare. Il secondo arriverà in finale di secondo tempo.
La ripresa ricomincia sulle stesse modalità. Ilicic si fa male subito calciando al volo dal limite dell’area. La svirgolata gli costa l’infortunio ed il cambio con Mauro Zarate. L’argentino sembra fatto apposta per questa partita, ma la Juventus è un muro che si compatta sempre più. E che quando scende in contropiede fa paura, come in un paio di occasioni mangiate da Pogba.
Mentre Zarate cerca di ricambiare cortesia e brividi a Buffon, Sousa opera il secondo cambio, fuori Tello per Mati Fernandez, Bernardeschi a destra. Il peso specifico della squadra ne risente prontamente, e in peggio, ma ormai si gioca sui nervi. Il Berna viene trattenuto dal coetaneo Rugani, Alonso sparacchia su Kalinic, ancora Alonso crossa per Nessuno, inteso come attuale centravanti di questa Fiorentina.
E’ il ’36, uno stadio e una città intera si preparano ormai all’ennesima delusione e quello che ne seguirà, quando Bonucci compie una delle rare sciocchezze della sua carriera traccheggiando un rinvio fino a farselo soffiare da Zarate. Palla a Kalinic, che finalmente si ricorda di chi era, e con freddezza pari alla giustezza mette in rete. Buffon può solo mandare a quel paese il compagno sventato.
1-1, palla al centro. La differenza reale tra Juventus e Fiorentina si palesa pochi istanti dopo. Tanto dura l‘equilibrio faticosamente riconquistato dai viola. Sulla ripresa del gioco, la Juve a testa bassa si butta in avanti, pochi istanti dopo è a battere il calcio d’angolo, pochi istanti ancora ed è tornata in vantaggio. Sul corner, succede che Borja si perde Evra che ha il tempo di sparare nel mucchio. Il rimpallo sarà anche sfortunato per la Fiorentina, ma ben quattro dei suoi uomini ignorano completamente Morata (entrato al posto di Dybala poco prima) preferendo marcare a zona Tatarusanu. Lo spagnolo ha la porta spalancata e diversamente dal connazionale Alonso non sbaglia.
E’ finita? Macché. Allegri si permette il lusso di ripresentare Juan Cuadrado al suo vecchio pubblico. Il probabile sberleffo al Franchi si trasforma in un boomerang per la Juve. Al ’44 il colombiano si trova a marcare il redivivo Kalinic sulla sinistra. Il croato lo salta secco ed il colombiano lo stende. O così pare. Il replay mostra Kalinic cadere sulla riga, quindi dentro l’area. Il dubbio concerne quanto sia stata fallosa la spinta di Cuadrado e quanto accentuata da Kalinic. Di Tagliavento in ogni caso non ci si può lamentare stasera. Di Kalinic invece sì. La telefonata dal dischetto a Buffon è una delle cose peggiori viste a Firenze, e su di essa può chiudersi ignominiosamente la breve stagione in viola di un attaccante dalle tante promesse non mantenute.
E’ finita? C’è tempo ancora al ’49 per l’ultimo sigillo, sempre di Kalinic, sulla madre di tutte le partite sciagurate. Il croato salta su un traversone trovandosi praticamente sulla linea della porta bianconera sguarnita, riuscendo da pochi centimetri a centrare la traversa.
Stavolta è la fine, davvero. Sul prato del Franchi i giocatori della Juve tornano a festeggiare. Lo scudetto va ai più forti, meritatamente. Più forti quest’anno significa buttarla dentro quando c’è l’occasione e poi controllare senza quasi sbavature. Magari anche meglio di quanto hanno saputo fare stasera. Ma tanto basta.

Per la Fiorentina la conclusione, se degna o indegna ognuno giudichi, di una stagione che si aggiunge al novero di quelle interlocutorie. Mentre Firenze defluisce mesta dal suo stadio, di sereno c’è solo Andrea Della Valle. Ma si sa, ormai, a lui basta poco. Dal quarto al sesto posto.

giovedì 21 aprile 2016

Non si uccidono così anche i tifosi?



Lo fa apposta. Questo non è turnover, ma – da diverse partite a questa parte – un facite a muìna in cui nessuno ci capisce più niente. Gli schemi sono saltati da tempo, le posizioni in campo sono diventate approssimative. Quando un allenatore fa così, di solito, o è gravemente stressato, o è gravemente incapace, oppure – cosa più probabile conoscendo i polli che ormai girano a bizzeffe nel mondo del calcio -  vuole farsi dire di restare comodamente a casa, ma con regolare stipendio, dai suoi datori di lavoro.
Se lo meritano. I suoi datori di lavoro, intendiamo. Una società di calcio di vertice non si gestisce in questo modo, lo diciamo da mesi. Se per qualunque motivo ti sei stancato del giocattolo, lo dichiari e passi la mano. Se invece vuoi andare avanti e addirittura ti sbilanci a confermare un allenatore con cui sei un separato in casa da mesi, che ti sbeffeggia pubblicamente (a torto o a ragione) da tutto il girone di ritorno mettendo in risalto la pochezza dei tuoi acquisti sul mercato e le tue carenze gestionali, questo è soltanto buttare via i soldi – e fin qui il problema è tuo, visto che ce li metti tu – ed anche un patrimonio comune di tradizione sportiva, aspirazioni legittime, passione. E qui il problema è di tutti, perché la Fiorentina non è soltanto quel titolo sportivo che il sindaco Domenici ti ha servito su un piatto d’argento in un’estate di tanti anni fa. E’ molto di più, e se non l’hai capito, a questo punto non lo capirai mai.
In tribuna a Udine c’è di presidio Cognigni, probabilmente perché ha subodorato qualcosa. I capi si aspettavano una pubblica accettazione della conferma da parte di un Paulo Sousa che invece nicchia, e dimostra ben poco entusiasmo. Quando annuncia poi la formazione che scende in campo al Dacia Arena, già Stadio Friuli, ci sarebbero gli estremi per il licenziamento in tronco. Ma anche per una rivolta di piazza contro una società che ormai si dimostra inadeguata perfino quando fa beneficienza.
Che il turnover di Sousa sia suicida ci pensa l’ennesimo Zapata schierato dai bianconeri friulani negli ultimi anni. Il colombiano, non è passato che appena un minuto di gioco dopo il calcio d’inizio battuto dai viola e subito trasformato in corner a sfavore, salta il doppio di Gonzalo Rodriguez, peraltro l’unico difensore che si aggiri dalle sue parti perché di Roncaglia e Tomovic non c’è neanche l’ombra. E deposita alle spalle di un Tatarusanu saldamente attestato tra i pali il vantaggio dei padroni di casa. Che di quel vantaggio hanno bisogno come dell’aria che respirano, essendo ancora a ridosso della zona retrocessione.
La Fiorentina avrebbe bisogno invece di una serata di relax, in vista della madre di tutte le partite che l’aspetta domenica. Al Franchi arriveranno ben altri bianconeri, quelli che si apprestano a festeggiare il quinto scudetto consecutivo e che pagherebbero oro pur di poterlo fare sul prato di casa dei più acerrimi rivali che abbiano in Italia. Ma questo è un problema di là da venire, anche se all’apparenza enorme per una squadra che nelle ultime uscite ha dimostrato poca testa e gambe molli.
Stasera invece servirebbero bel gioco e punti. Perché il Milan sarà anche ormai concentrato su una finale di Coppa Italia che comunque vada dovrebbe ammetterlo all’Europa League, ma insomma poter riagganciare ed eventualmente superare la Fiorentina a cui sta dietro fin dalla prima giornata darebbe un altro senso alla stagione dei ragazzi di Brocchi.
La Juventus, insomma, per ora è una questione accademica. L’Udinese  affamata di punti salvezza invece è una questione immediata, reale. Il turnover deciso da Sousa appare fin da subito, con la sottolineatura di Zapata, un tagliarsi gli attributi per far dispetto alla moglie, nel migliore dei casi. Oppure una scelta scellerata. In particolare quella di lasciare fuori il pilastro della difesa centrale Davide Astori, l’unico che potrebbe giocarsela alla pari sul piano fisico con i marcantoni friulani.
Radio Spogliatoio parla di notevole litigata al termine della partita di Empoli tra il centrale viola ed il suo tecnico. Un qualcosa di simile alla querelle Totti – Spalletti che sta deliziando la capitale sulla sponda giallorossa, rischiando di compromettere una qualificazione alla Champion’s che ormai sembrava alla portata dei capitolini. Qui a compromettere una stagione che era partita sorprendentemente in tromba c’è un po’ l’imbarazzo della scelta. Ognuno trovi il colpevole che preferisce: proprietari inadatti al mondo del calcio, dirigenti e manager da Borgorosso Football Club, allenatore portoghese a questo punto nel senso classico della parola, giocatori a cui bisognerebbe rinnovare il vecchio abbonamento alla Guarda-Viale-Dei-Mille.
Ieri sera ai colpevoli si è aggiunto anche un Bernardeschi che non sta vivendo il momento migliore della stagione, ma che pur confermando di essere quasi l’unico cavallo di razza in mezzo ad una mandria di ciuchi bolsi si è attirato le maledizioni di parte della tifoseria per qualche sbavatura che è costata dapprima il vantaggio viola (mancato) e poi quello bianconero (realizzato). Al talento di Carrara però evidentemente tanti fiorentini non perdonano di aver fatto vedere le cose migliori in Nazionale. L’azzurro in tante zone di Firenze è tutt’ora come il rosso in Plaza de Toros.
La Fiorentina mal messa in campo da Sousa, con Blaszczykowski a fare non si sa bene cosa al posto di Borja, Ilicic e quant’altri, con il Duo Fasano Tomovic – Roncaglia a non beccarne una dietro, il Berna fuori posto come al solito, Zarate da solo come un cane all’ attacco in mezzo ad una difesa bianconera che sembrava il pacchetto di mischia di una squadra di rugby, quella Fiorentina dicevamo gioca i soliti venti minuti o poco più. Ma stavolta li distribuisce nella fase finale del primo tempo. All’inizio l’Udinese fa temere una Caporetto, passando subito ed aggredendo i viola con un pressing furibondo. Poi i padroni di casa si fanno prendere dall’apprensione per una classifica poco rassicurante e cedono terreno, lasciandolo ad una Fiorentina che non chiede di meglio che riprendere il suo consueto, ormai esangue tiki taka.
Avendo in attacco l’unico altro cavallo di razza del mazzo, Mauro Zarate, la squadra viola riesce a riagguantare il risultato con una prodezza individuale del suddetto. L’argentino sa giocare a pallone, e dimostra che il problema viola da gennaio a questa parte non è stato certo il suo ritardo di condizione. La seconda metà del primo tempo scorre meno in salita per la sua  squadra, che se da un lato recrimina per l’indecisione del suo numero 10 sotto porta, dall’altro va negli spogliatoi con nelle orecchie la vibrazione della traversa sotto i colpi di Badu e Thereau.
Le squadre affrontano la ripresa come un lapsus freudiano. L’Udinese cerca di ritrovare il coraggio perduto nelle maglie di una classifica avversa, la Fiorentina vorrebbe tanto poter tornare ai bei tempi in cui faceva accademia fregandosene di tutto e di tutti, dal risultato di giornata al piazzamento di campionato, il tutto affogato nel milione di passaggi laterali a partita lasciato in eredità da Montella a Paulo Sousa.
Alla fine, dice bene a chi ha più cuore, testa, gamba. I friulani arrivano primi su quasi tutti i contrasti. Quando serve, picchiano anzi che no, con in qualche caso eccessiva compiacenza da parte dell’arbitro Massa. Ma insomma, fanno la partita. Ed al 7’ vengono premiati. Bernardeschi perde sì una palla a centrocampo, ma invece di fulminarlo con uno sguardo omicida il suo allenatore oggi poteva imbastirgli intorno una squadra che non fosse una banda di morti viventi come quella di stasera. Badu verticalizza invece per Vidmer, che va sul fondo a destra e mette in mezzo. Sul traversone basso si avventa Thereau che, non essendo marcato da chicchessia viola, ha il tempo di aggiustare passo e tiro al volo. Tatarusanu che raccoglie il pallone in fondo alla rete è il primo viola che la tocca dopo l’errore di Bernardeschi. Tra i due tocchi, il nulla.
Trovato il capro espiatorio, Sousa lo giustizia subito mettendo il morto Kalinic al posto del semi-vivo Bernardeschi. Borja entra per Vecino che si è appena strappato (con relativo centrocampo da inventare domenica al cospetto del più forte centrocampo d’Italia). Ilicic finisce per rilevare Tello, che non avrà fatto tanto ma che almeno la fascia ogni tanto l’ha animata. Finisce con la sterile accademia viola. Con Borja e Ilicic che tentano qualche numero dei loro, chiudendo l’Udinese in difesa. L’unico brivido lo causa una punizione dello sloveno, che esce di un soffio e dà a tutti l’occasione per assistere ad un corso accelerato di turpiloquio balcanico.
Delle recriminazioni viola nei confronti dell’arbitro non parliamo per scelta consapevole. Se c’è qualcuno su cui recriminare, è una proprietà che francamente ha stancato con i suoi inutili e mal recitati proclami e con i fatti che non seguono mai ai discorsi. Così come ha stancato un allenatore che sta aggiungendo del suo allo sconquasso gigliato del girone di ritorno, gestendo la sua polemica a distanza con chi gli paga lo stipendio sulla pelle dei tifosi che l’hanno finora difeso e osannato. Dei giocatori non parliamo, sono stanchi, danno quello che hanno e se hanno in qualche modo mollato la colpa è come sempre di chi doveva tenerli sulla corda fino in fondo. Del manico, a tutti i livelli societari.
Stasera il Milan può andare a – 4. Domenica la Juve può fare festa nello stadio di Firenze. Il campionato non è ancora finito. La pazienza sì.

domenica 17 aprile 2016

Il Sassuolo a più miti Consigli

Diciamo la verità. Era più facile trovare oggi motivazioni per andare a votare al referendum sulle trivelle che per andare allo stadio ad assistere a questo Fiorentina – Sassuolo. Non si tratta di essere irriverenti né verso la Costituzione della Repubblica, né verso la squadra del cuore. E’ che – con il dovuto rispetto, soprattutto nel primo caso - ogni tanto alle parole di un Sergio Mattarella o di un Andrea Della Valle bisognerebbe accompagnare a corredo qualcosa di più sostanziale.
Lasciando perdere il serio e limitandoci al faceto (il calcio grazie a Dio ancora lo è, o tenta di esserlo), alla trentatreesima giornata al Franchi va appunto in scena un match tra viola e neroverdi che, a voler essere pedanti, deve sciogliere il nodo cruciale di chi arriverà quinto e chi sesto alla fine di questo ormai interminabile campionato. Non è precisamente l’avvincente finale di un giallo di Agatha Christie, né la conclusione in tono con quello che ci era sembrato essere questo campionato, quando nelle prime giornate ci eravamo illusi di essere davanti al fatidico “anno buono”.
Ma tant’é. Milan permettendo (e comunque al netto della finale di Coppa Italia, che potrebbe anche sfuggire teoricamente di mano ad una Juve onnivora, ma forse sazia di proteine al termine della ennesima cavalcata vittoriosa), i ragazzi di Sousa e quelli di Di Francesco si giocano teoricamente l’ultimo posto disponibile per la partecipazione ad una Coppa che stiamo dimostrando ampiamente come calcio italiano (e la partita del Franchi non farà eccezione) di non meritare.
E’ stata l’ennesima settimana dei “faccia a faccia” a Firenze. “ADV è una persona chiara”, ha detto Paulo Sousa alla fine del confronto all’americana più atteso della stagione. Quando già ci aspettavamo che parafrasasse il Marcantonio di Shakespeare aggiungendo anche “è un uomo d’onore”, ecco la doccia fredda. Niente discorsi, solo fatti, sotto forma dell’ennesima formazione sbagliata. Forse sono fatti per andare avanti insieme questi proprietari e questo allenatore. Ognuno è bravo a sbagliare quanto di propria competenza in ogni circostanza e con ogni clima. Senza condizionamenti esterni, come si suol dire.
Il portoghese che dice di voler continuare a risciacquare i propri panni in Arno presenta una difesa a tre obbligata dalla squalifica di Astori, con un Roncaglia-Tomovic (supervisionato da Gonzalo) che farebbe la fortuna dei cicli horror della nostra infanzia al mitico cinema Universale, quando ci terrorizzavamo puntualmente all’ennesima replica di film già visti cento volte. D’altra parte, questo passa il convento. Dio c’è, di Benalouane non siamo altrettanto certi, recitava un arguto striscione tempo fa.
Sulle fasce Marcos Alonso e Tello, e fin qui poco da dire. Come sul trio Borja – Badelj – Vecino. A inizio stagione ci sarebbe stato poco da dire anche sui due cannonieri dalle polveri bagnate, Kalinic e Ilicic. Ora la questione si è fatta diversa, soprattutto perché si tratta di lasciare in panca gente come Bernardeschi e Zarate. Giunto al match decisivo, o almeno quello che potrebbe evitare di rubricare questa stagione come un tracollo ignominioso, Sousa si affida ai suoi pretoriani. Avrà bisogno di una gran fortuna, contro un Sassuolo che ha marciato finora al ritmo di uno schiacciasassi.
Di Francesco è uno dei nomi che si fanno per la prossima stagione sulla panchina viola, qualora le parole di ADV si rivelassero per quello che è lecito sospettare: aria fritta. Il tecnico neroverde ha per le mani un meccanismo collaudato ed in discreta forma fisica. La domanda è: avrà più voglia Squinzi di Della Valle di frugarsi in tasca per elevarsi al livello di una coppa europea?
Il campo sembra dire di sì. Anche se parte a razzo la Fiorentina, ma l’aveva fatto anche a Empoli. Regge ai livelli che continuiamo a considerare come i suoi congeniali per almeno una mezz’ora, ma l’aveva fatto non solo a Empoli ma in tutto il girone di ritorno. Poi annaspa affidandosi ad improbabili ripartenze e confidando su traballoni difensivi da far paura.
Non sembra proprio una partita destinata a far fare alle squadre mera passerella come quella del 2003, ultima giornata di quel campionato di C2 che festeggiò l’inizio della risalita di una squadra che quell’anno si chiamava Florentia Viola. L’unica stagione conclusa dai della Valle con un titolo. No, stavolta si fa sul serio. Il Sassuolo aspetta la sfuriata dei padroni di casa confidando nel loro proverbiale calo di metà tempo. Oggi, per la verità, ha un alleato in più nell’arbitraggio.
Non siamo soliti ascrivere ai direttori di gara le disgrazie della squadra. Ma oggi Luca Banti fa di tutto per arbitrare la peggiore partita da quando è in serie A. Difficilmente, dopo questa prestazione, sostituirà il cacciucco tra le glorie di Livorno. E alla fine, per una vittoria tutto sommato senza grosse discussioni della squadra viola, siamo a ringraziare il povero Consigli a cui riesce l’harakiri tentato da Tatarusanu a San Siro.
Nei primi dieci minuti la Fiorentina potrebbe passare almeno due volte prima del cross di Badelj su cui con la consueta scelta di tempo da goleador di razza si avventa quel Gonzalo Rodriguez che ormai – diciamolo – in difesa sembra addirittura sacrificato. Nei dieci minuti successivi un Sassuolo irriconoscibile, frastornato potrebbe addirittura capitolare sotto i colpi di una Fiorentina straripante. Al 17’ per la verità capitola, gran cross stavolta di Tello e gran tiro al volo del connazionale Alonso (anch’egli sempre più sacrificato in difesa). Solo Banti riesce a vedere un fallo di Kalinic lungo la traiettoria. Il croato sembra addirittura strattonato dal difensore, ma l’arbitro labronico non ha dubbi.
Dopo il raddoppio annullato, comincia ad accendersi la spia rossa nel serbatoio viola. Non sarebbe ancora il caso di preoccuparsi perché la squadra continua a creare occasioni, anche se sempre più macchinosamente. Ma alla mezz’ora Defrel si trova solo davanti all’estremo difensore rumeno e clamorosamente spara alto. Il replay mostra lui ed almeno un altro compagno in fuorigioco. Banti non batte ciglio, e solo per fortuna la sua decisione non costa un clamoroso pareggio al posto di una larga vittoria in chiusura di tempo.
Prima del riposo, Kalinic conferma di aver bisogno di qualche seduta di psicoanalisi. Quando sbagli l’occasione che gli viene imbeccata al 40’ e che lui ciabatta addosso a Consigli, limitarsi a dire che c’è qualcosa che non va appare a questo punto limitativo.
Si riparte senza cambi, il che con il Sassuolo che comincia a premere appare una scelta incomprensibile, foriera di ulteriori disgrazie. Probabilmente ADV è stato chiaro anche su questo in settimana, quando ha detto che in questa società non si cambia si riferiva anche ai giocatori, non solo ai manager.
I neroverdi ci mettono dieci minuti a pescare il jolly. Defrel e Berardi partono in fuorigioco, e siamo a due. Ma stavolta Defrel fa tutto bene, e i due difensori viola che gli vanno sopra lasciando incustodito Berardi tutto male. Il neo juventino riceve palla a centro area e per lui battere il buon Tatarusanu è un gioco da ragazzi.
Neanche il tempo di bestemmiare parenti, amici, e soprattutto quadri tecnici e dirigenziali della società (ai giocatori in campo cosa gli vuoi dire? Qualcuno boccheggia più di un pesce all’Acquario di Genova), che la Fiorentina ritrova il vantaggio appena perso buttandosi in avanti alla disperata. Marcos Alonso rimette palla al limite dell’area. Sul cross si avventa Josip Ilicic che come un Marco Tardelli di annata calcia al volo infilando da fuori Consigli sull’angolino sinistro. Lo sloveno ha buon gioco a mimare il gesto della cinepresa, il suo è un gol da cineteca e per di più salva la giornata sua, dell’allenatore, della squadra, della società, di una città intera.
Anche il Sassuolo avrebbe subito l’occasione di colpire con un tacco di Acerbi. Sarebbe un altro Eurogol, la palla scivola fuori di poco, ed è l’ultimo tuffo al cuore per una tifoseria viola decimata qui al Franchi dallo scarso feeling e dalle proteste anti-Questura. Poi, i tecnici si ricordano di avere delle panchine. Da parte emiliana spazio a Sansone, da parte toscana a Bernardeschi. Ormai però è tardi, le squadre sono stanche e nessuna iniezione di talento può migliorarne la prestazione. Sousa mette dentro anche Zarate, ma alla fine ci vuole un liscio di Consigli per chiudere il discorso come Firenze si aspettava e per mandare negli spogliatoi una Fiorentina apparsa una volta di più alle corde, ma finalmente rinfrancata dai tre punti.
Che dire? Anzi, a chi dire? Alla proprietà: se questa annata era il caso di finirla in questo modo, allora ha ragione chi dice che il limite di Firenze è questo. Per noi è il limite piuttosto della famiglia Della Valle. Firenze merita di meglio, che provenga dalla Cina o da altrove.
All’arbitro Banti: se crede di cavarsela agli Europei con prestazioni come quella odierna, noi crediamo di potergli dire che andrà poco lontano, e con lui quel Rizzoli del cui team fa parte.

A Paulo Sousa: ti auguriamo ogni bene, ma un girone di ritorno come quello della Fiorentina di quest’anno speriamo di non rivederlo mai più. Al faccia a faccia della settimana scorsa avremmo fatto pervenire volentieri ad entrambi i convenuti un mazzo di fiori con un biglietto con su scritto: grazie di tutto, a non più rivederci.

domenica 10 aprile 2016

Naufragio viola

Da Capo Trafalgar al Mar Glaciale Artico, dalla Victory dell’Ammiraglio Nelson al Titanic su cui l’orchestra continua a suonare spensierata mentre la nave affonda, nel giro di due soli mesi. La barca viola imbarca sempre più acqua, ed è prossima ad inabissarsi. Soltanto due mesi fa sfidava orgogliosa la corrazzata inglese in Europa League, adesso esce malconcia dal derby sull’uscio di casa.
Poco importa che a differenza di un Titanic o di una Costa Concordia il suo capitano resti fiero al timone (almeno fino a metà maggio, e al netto di tutte le cene che gli vengono attribuite a giro per Firenze), prendendosi colpe proprie ed altrui senza nascondere la faccia. Tre punti nelle ultime quattro partite sono una media da retrocessione. Il match di andata fu un brusco risveglio per una Fiorentina che si stava abituando ad essere capolista. Quello di ritorno è l’amara conferma che la Fiorentina più vicina al vero non era quella. Certo non osiamo pensare nemmeno che sia questa qui.
Semplicemente, le risorse tecniche di questa squadra sono consunte, le idee e forse anche le motivazioni del suo allenatore sono agli sgoccioli, una società degna di questo nome dietro le spalle di chi va in campo non c’è più. E se ci si mettono anche i tifosi, allora la frutta è servita, si aspettano solo caffè, ammazzacaffé e conto. Salatissimo, probabilmente.
Dopo una settimana passata a rendersi odioso anche nei confronti di chi già è abbastanza maldisposto nei suoi confronti per motivi storici che non stiamo qui a discutere, l’universo viola si scaraventa su Empoli con propositi bellicosi. Non è più tempo di trasferte in motorino, di esodi comunque di massa dalla “metropoli” verso la “provincia”. Non è più tempo di battute su stadi acquistati all’IKEA, né di facili vittorie. La provincia non batte la città metropolitana da quasi vent’anni, e ha voglia di interrompere la serie dopo esserci andata vicino all’andata. Il Castellani, i cui prezzi non hanno nulla da invidiare nel bene e nel male a quelli del resto della serie A malgrado le proteste della torcida viola, ribolle di aspettativa.
Anche Firenze ribolle di aspettativa. L’Inter è passata avanti riuscendo là dove era fallita la Fiorentina nella precedente trasferta. Ha sbancato Frosinone, adesso i viola devono fare altrettanto ad Empoli per tenere vivo un quarto posto che serve come le parole dello staff dirigenziale societario ad inquadrare il momento di società e squadra: a niente.
La squadra tuttavia sembra essersi scossa dal torpore pre-vacanziero che l’ha avvinta da quando la Roma l’ha ricondotta alla realtà della propria dimensione ed a quella degli investimenti dei suoi proprietari. Per cinque minuti il Castellani sembra un Fort Apache sotto l’assedio viola, per altri venti – calato inevitabilmente il fiato residuo di una preparazione ormai lontana – la Fiorentina impensierisce l’Empoli. In questa prima fase si notano un Bernardeschi la cui voglia equilibra il talento, come spesso quest’anno, ed un Ilicic che sembra desideroso di ritrovarsi ai livelli della prima parte di stagione. Sono loro due a far tremare Pelagotti & C., provandoci o imbeccando compagni meno ispirati come il Borja Valero di oggi (a cui è pesata evidentemente la fascia di sindaco messagli sulle spalle da un Nardella pre-elettorale) o il Tello che si sta rapidamente uniformando alla pochezza viola attuale.
Mentre Kalinic conferma la necessità di valutare attentamente le offerte che secondo Radiomercato stanno arrivando all’ACF Fiorentina, ribadendo uno zero complessivo sul proprio score personale che a questo punto non può più essere episodico, Ilicic tenta di tenere viva la patria con un gran gol al volo di sinistro che però nasce da netto fuorigioco e con una punizione da lontanissimo che Pelagotti trattiene con qualche difficoltà. Bernardeschi svaria e imposta, gli altri fanno gran confusione.
Non si fa a tempo a dire che c’è un gran buco nel mezzo del campo, se solo l’Empoli indovina la ripartenza giusta, che l’Empoli la indovina. Facundo Roncaglia rinvia di testa a perpendicolo per l’accorrente Pucciarelli, che con una sterzata degna di El Shaarawy si beve Gonzalo (scivolato) e fulmina un Tatarusanu che ha esaurito i miracoli. Ancora Ilicic impegna Pelagotti nel tentativo di non rimandare la propria squadra negli spogliatoi avvolta nelle tenebre, ma niente da fare.
Tenebre viola, sempre più fitte. L’Ammiraglio Sousa è il primo a farsi abbindolare dalla nebbia da cui ogni tanto spunta qualche strafalcione dei suoi, come le occasioni mancate da Tello e da Ilicic, e i pericoli scampati di rimessa, come quello costituito da un Saponara che praticamente sbaglia un calcio di rigore. Il vecchio Maccarone è una spina nel fianco come il giovane Pucciarelli, ma lì Sousa nulla può. I difensori di ruolo, almeno quelli degni di tal nome, due erano e due restano, e francamente appaiono un po’ provati.
Si potrebbe fare qualcosa davanti, Zarate scalpita in panchina, ma a vedere il quarto uomo sollevare il numero 10 per lasciargli il posto cascano le braccia. Se nel marasma di questa Fiorentina deve uscire Bernardeschi, allora questo campionato non finirà mai troppo presto. Tanto più che lo Zarate all’opera oggi sembra qualcuno che ha subito un intervento per la protesi dell’anca, si gira su se stesso con una macchinosità che gli era sconosciuta ed esala tiri verso la porta empolese che sembrano ultimi respiri.
L’arbitro Damato dirige senza infamia e senza lode, è una partita tutto sommato facile, che oppone rudi padroni di casa decisi a portare in fondo l’insperato vantaggio e leziosi ospiti che credono che basti ancora la vecchia accademia per avere ragione di avversari che corrono di più, lottano di più. Ci credono di più.
Al ’22 il fischietto pugliese deve annullare un gran gol di Kalinic in contropiede. Salverebbe la giornata viola e quella del croato, ma a rivedere le immagini rallentate, Kalinic è in fuorigioco mezz’ora prima che gli arrivi il passaggio. Non c’è niente che oggi possa salvare la sua prestazione, né questa Fiorentina.
Kalinic sbaglierà ancora, mentre la barca affonda. Fa il suo esordio Kone al posto di Ilicic e torna alla ribalta – si fa per dire – Kuba al posto di Roncaglia. Ormai la nave imbarca acqua da tutte le parti e tutti gli uomini validi, o presunti tali, sono spediti ai secchi. Non importa che siano marinai o mozzi, rematori o fucilieri. E’ un facite a muìna in cui termina mestamente il campionato di una Fiorentina che era sembrata all’inizio ben altra cosa.
Finché, dopo l’ultima ciabattata del sindaco pro tempore Borja Valero, se ne va di nuovo l’Empoli, ancora Pucciarelli impegna Tatarusanu che respinge corto, giusto sui piedi di uno Zielinsky implacabile come il destino.

Fa festa il Castellani, travolto dalla gioia come non gli succedeva dal 1997. Da parte viola c’era Batistuta, da quella azzurra forse c’era già Maccarone. Scherzi a parte, chi ha speso i soldi del biglietto da parte empolese si è divertito, e giustamente. Chi è venuto dalla metropoli un po’ meno, e sicuramente nel ripercorrere la Firenze-Pisa-Livorno a ritroso si starà domandando che senso ha giocare un campionato così. O forse addirittura che senso ha gestire una proprietà così.


sabato 9 aprile 2016

Da Giampaolo a Giambattista Vico

Era una sera di dicembre del 2009, uno dei giorni immediatamente successivi a quello in cui Alberto Gilardino aveva segnato uno dei gol più importanti della storia viola. Ad Anfield Road a Liverpool, lo stadio in cui non si cammina mai da soli, la Fiorentina aveva eliminato il Liverpool dalla Champion’s League qualificandosi agli ottavi di finale. Dopo anni di magre e di sofferenze seguite al gol di Batistuta a Wembley contro l’Arsenal, di nuovo l’Inghilterra sembrava dare il via ad una nuova epopea viola. Il futuro sembrava roseo. Anzi, di più.
Fu proprio allora che un personaggio di spicco della società ACF Fiorentina (si dice il peccato e non il peccatore, ma tutti sanno che si trattava di un ragioniere con qualifica di plenipotenziario fiduciario del patron Diego della Valle) avvicinò il tecnico Cesare Prandelli prendendolo da una parte e sussurrandogli poche ma micidiali parole, tali da stroncargli dentro qualunque euforia e voglia di festeggiare lo storico successo.
Lei può cercarsi un’altra squadra”. Prandelli aveva già intuito che il ciclo, il progetto, per usare una terminologia cara alla proprietà, di cui era stato protagonista fino a quel momento, era alla fine. Pochi mesi prima, alla richiesta di quei rinforzi che avrebbero consentito di mantenere la promessa di vittoria entro il 2011 si era sentito rispondere dal Capo in testa “lei pensi ad allenare la squadra”. A luglio, la public relations woman Silvia Berti, uno dei personaggi qualificanti il progetto, era stata invitata dall’oggi al domani a fare le valigie e sgomberare i locali occupati nella sede viola. A settembre Andrea Della Valle aveva sclerato improvvisamente dando le dimissioni da presidente, proprio nel momento in cui sembrava entrare nella fase cruciale la trattativa con il Comune per la Cittadella ed il nuovo stadio.
Il vento era improvvisamente cambiato sotto la Torre di Maratona. Ed era un vento di tempesta, per quanto in quel momento ancora “montante”. Il clima da marcia trionfale faticosamente ricostruito dopo la bufera di Calciopoli veniva spazzato via improvvisamente e incomprensibilmente. Prandelli non ci mise molto a capire che era il caso di seguire quel consiglio sibilatogli dal Ragioniere mentre Firenze era in festa per il trionfo più prestigioso non solo dell’Era Della Valle.
Da quel momento, non passò giorno senza che una stampa più o meno interessata lo vedesse a cena con questo o quell’emissario di squadre più o meno importanti. Soprattutto con quelli della squadra a cui a Firenze non si perdona nulla. Chissà quanti chili Roberto Bettega e Cesare Prandelli avrebbero dovuto mettere su in quei mesi invernali se avessero cenato insieme tutte le volte di cui fu dato conto su giornali e siti web in quel periodo. “Il peccato è nell’occhio di chi guarda”, diceva l’Inquisitore Torquemada (che se ne intendeva). Ma “il tifoso è tifoso perché non vuole pensare a niente”, ha affermato a ragione in epoca più recente Oliviero Beha. Molti tifosi caddero nella trappola tesa da una sedicente stampa sportiva indipendente. Prandelli in fondo era stato un “gobbo”. Perché non credere ad un suo ritorno alla Casa Madre?
Quando ad aprile Diego della Valle scelse la via del confronto-scontro pubblico sbottando in pieno Bar Stadio contro il suo stipendiato fedifrago, la città si divise. DDV ebbe meno consensi di quanti i sondaggi gliene avrebbero attribuiti, ma comunque più che sufficienti a creare un partito, destinato a contrapporsi ai “rosiconi”. Dellavalliani da una parte (o “leccavalle” come vengono chiamati sprezzantemente dagli avversari), rosiconi dall’altra, Firenze si accinse a nuovi cicli, nuovi progetti e nuove promesse avendo ritrovato il familiare e più congeniale terreno dei Guelfi e Ghibellini su cui si era dilaniata con estrema voluttà fin dal medioevo.
Cinque anni dopo, toccò ad un nuovo ciclo ritrovarsi strozzato proprio nel momento che sembrava quello del decollo. Dopo tre anni di calcio spettacolo e di risultati promettenti, la sera in cui la Fiorentina si arrestò n semifinale di Europa League cedendo al Siviglia che poi avrebbe vinto il trofeo Vincenzo Montella scoprì di non avere più il sostegno né della proprietà né di quella parte della tifoseria con essa schierata senza se e senza ma.
Alla sua richiesta di nuovi acquisti che consentissero il benedetto salto di qualità (al quale in quel momento di nuovo sembrava mancare davvero poco), non gli fu risposto come a Prandelli ma evidentemente le espressioni facciali furono le stesse. Vincenzo partì per le vacanze estive, dalle quali fece sapere che il suo era un biglietto di sola andata. La società nel frattempo aveva già spedito emissari a Chiasso, direzione Basilea. Obbiettivo, il terzo progetto, la terza scommessa (anzi, quarta, contando quella su Sinisa Mihajlovic abortita subito): Paulo Sousa da Viseu, Portugal.
Comunque uno giudichi tali eventi e la situazione che ne è seguita, era lecito aspettarsi una relativa tranquillità per almeno i tre anni che solitamente dura un ciclo dellavalliano. Macché, alla fine di gennaio dell’anno successivo (quello in corso) siamo già alle porte coi sassi. Uno stralunato Paulo Sousa ancora in corsa spasmodica per non perdere contatto con un primo posto in classifica insperato e storico, si vede recapitare dal calciomercato tali Kone E Benaluoane. E capisce forse che la squadra è bene cercarsela ancor prima che qualcuno abbia la brillante idea di sollecitarlo in tal senso.
Ecco che i ristoranti di Firenze tornano a popolarsi di allenatori viola cospiratori, misteriosi emissari stranieri, giornalisti appostati come agenti segreti (a proposito, ma quanto mangiano questi giornalisti? sempre a cena fuori?). Dettagliati reportages di cene carbonare (nel senso del mistero che le ammanta, non del menu) si alternano a proclami di rivincita e ripartenza in tromba societari.
Tutto, meno quello che la professione giornalistica imporrebbe: dare conto delle condizioni e delle prospettive di questa Fiorentina. Una squadra con l’organico ridotto all’osso, il morale e la concentrazione già inesistenti alla fine di marzo, la prospettiva di rinforzarsi nascosta nelle pieghe di un autofinanziamento in cui le plusvalenze della Fondazione Corvino sono ormai agli sgoccioli.
Ci sono ancora sette partite da giocare, e non vorremmo che andassero a finire come quelle che conclusero l’ultima stagione di Prandelli. Per un totale di diciassette sconfitte, propiziate da un ambiente – quello viola – che aveva già mollato da tempo ma che pretendeva di darne tutte le colpe all’allenatore. Errori di formazione a parte, dobbiamo dire comunque grazie a Paulo Sousa per la professionalità con cui sta portando a una decorosa conclusione di stagione il baraccone viola ex sorpresa di questo campionato.
Poi sarà di nuovo il tempo delle tagliatelle ai funghi e dei proclami (se a vuoto, lo diranno i posteri), delle scommesse e delle promesse, delle plusvalenze e degli autofinanziamenti, degli scudetti di bilancio, dei bacini di utenza, dei vorrei ma non posso (anche se sono il decimo nella classifica dei patrimoni italiani, o giù di lì).

Si parla di Giampaolo sulla panchina viola. Forse, visti i precedenti, sarebbe più adatto Giambattista Vico. Quello dei corsi e ricorsi.


domenica 3 aprile 2016

Nostalgia Montella

La prima buona notizia della giornata è che lo Stadio Franchi ci mette un istante a risolvere l’atroce dilemma propostogli alla vigilia da Andrea Della Valle. A sei anni di distanza, il minore dei proprietari della Fiorentina tenta di ripetere il giochino azzardato dal fratello maggiore contro Cesare Prandelli, e lo fa con lo stesso stile.
A distanza di sei anni esatti, Firenze mostra di non starci neanche questa volta. Quando Vincenzo Montella fa il suo ingresso sul prato dello stadio che era suo, parte immediatamente una standing ovation unanime ed inequivocabile, che vale da sola più di tutte le parole spese in settimana da una proprietà non proprio sintonizzata sulle lunghezze d’onda cittadine e da tutti coloro – addetti ai lavori e tifosi - che si sono affannati a giustificarla e sostenerla nel tentativo di mascherare delusioni passate e presenti con una montagna di promesse che hanno il principale difetto di suonare soprattutto come già sentite. E scarsamente mantenute.
Firenze per una volta non si divide, e seguendo il consiglio di Paulo Sousa, colui che ha raccolto il testimone viola dal collega passato nel frattempo sotto la Lanterna e che lo sta tenendo in pugno con alterne fortune ma senza dubbio con grande signorilità, applaude senza riserve né ritegno Vincenzino. Il quale contraccambia, vistosamente emozionato, e va a sedersi su una panchina diversa da quella verso cui istintivamente in quel momento forse si sarebbe diretto.
E’ una buona notizia, finalmente, proprio nel momento in cui ogni rumore cessa, l’aria stessa si ferma immobile a commemorare la scomparsa di uno degli ultimi grandi del nostro calcio, Cesare Maldini. Lo stadio che tributò le debite onoranze all’ultima partita giocata da suo figlio si raccoglie commosso a celebrare il padre, fiero e sportivo avversario di una Fiorentina di altri tempi, quella di Befani che si contendeva con il Milan del Gre-No-Li lo scudetto e poi andava a giocare la Coppa dei Campioni contro il Real Madrid. A ripensarci oggi, anche alla luce dei novanta minuti che stanno per seguire, viene quasi da piangere
Addio Cesare, addio grande calcio che fu. Questo 2016 è veramente una carogna, ci sta facendo a pezzi i nostri miti. Lasciandoci alle prese con una realtà da cui forse vorremmo fuggire, a prescindere dall’aver ascoltato o meno l’ultima conferenza stampa di Andrea Della Valle. Lasciandoci alle prese con un’altra di quelle partite che non parlano né dei sogni di Cognigni (anche i ragionieri sognano) né delle marce trionfali immaginate dal suo datore di lavoro.
Si profilano tempi duri per la Fiorentina contro la Sampdoria, è chiaro fin da prima del fischio d’inizio dell’arbitro Gervasoni (ottima direzione di gara la sua, praticamente perfetta, tanto da far dubitare che fosse lo stesso che due anni fa quasi querelò Borja Valero chiedendogli i danni per la “famigerata” spinta). Alla trentunesima giornata la squadra viola ha poco ancora da chiedere a questo campionato. Svaniti i sogni di gloria, tra quarto e quinto posto non passa nessuna differenza. Scendere al sesto semmai comincerebbe ad essere una seccatura, perché ci sarebbe da fare il preliminare di Europa League, con tutti i rischi del caso. Ma il Milan, che non è più quello dell’epoca di Maldini padre e nemmeno di Maldini figlio, sta facendo di tutto per tranquillizzare una squadra viola che di energie fisiche e psichiche non ne ha quasi più.
E’ una giornata quasi da fine campionato, e non solo per la temperatura finalmente primaverile. Una di quelle in cui ai tempi eroici si aspettava solo il fischio finale per l’invasione di campo e la caccia alla maglia di Desolati, Della Martira, Casarsa. Dall’altra parte del campo c’è una Sampdoria invece tutt’altro che tranquilla che non può permettersi altre battute a vuoto. E soprattutto c’è lui, Vincenzo Montella, che ha tutte le motivazioni del caso (classifica a parte) e tutte le risorse adeguate per sostenerle.
La Fiorentina, infatti, tolti i primi venti minuti in cui pare ritornata quella dell’andata (la partita di Genova sponda Samp fu l’ultima in cui fu consentito di ammirare la squadra viola in versione San Siro sponda Inter, l’ultima da capolista – per capirci – prima della lenta ma costante involuzione), a metà del primo tempo comincia ad annaspare, lasciando per la prima volta da tempo immemorabile il possesso palla in appannaggio del suo avversario.
Il fatto è che la Fiorentina oggi gioca contro il suo babbo. Colui che l’ha inventata, e ne conosce tutti i segreti. Paulo Sousa tenta di sparigliare le carte dando fiducia al figliol prodigo Babacar in luogo dello squalificato Kalinic. In attesa di sapere che cosa ha tenuto fuori di squadra quest’oggi un Bernardeschi reduce dalle buone prove con la Nazionale, si può addirittura apprezzare il suo tentativo di cambiare pelle ad una squadra che rischia di giocare contro lo specchio. E di farsi male.
Il fatto è che Vincenzo Montella questi giocatori li conosce tutti ad uno ad uno. E questa squadra nel suo complesso. Per non parlare dei suoi schemi. Non foss’altro perché glieli ha dati lui, per quanto Paulo Sousa abbia tentato poi di perfezionarli o variarli. L’Aeroplanino plana tranquillo sul prato del Franchi. Lui sa bene che con il pressing alto la Fiorentina perde tanto del suo potenziale. In particolare questa Fiorentina, che ha un gran bisogno di andare al mare e gettarsi questa stagione alle spalle, più di tutte quelle del passato di cui lui stesso è stato parte.
L’unica novità, Tino Costa al posto di Vecino, non è tale da poterlo sconcertare. Semmai è Tello, ritornato padrone della fascia destra, a causare qualche problema all’altro ex che gli mette addosso, Diakité (saranno cinque in campo in totale, contando anche Viviano, De Silvestri, Cassani e Quagliarella). Sulle fasce, lo spagnolo e il connazionale di sinistra Marcos Alonso sembrano poter creare problemi alla difesa doriana. In mezzo, dietro a Babacar che fa a sportellate senza gran costrutto con Ranocchia, Ilicic e Borja Valero sembrano tornati quelli di inizio stagione.
L’illusione almeno è quella, favorita dall’invenzione con cui la Fiorentina passa in vantaggio al ’23. Il triangolo tra lo sloveno e l’iberico è splendido, di quelli che avremmo sempre voluto vedere tra loro due. Ilicic si ritrova davanti a Viviano che non ha tempo di esitare: la battuta di prima del numero 72 viola non perdona. A quel punto, Fabio Quagliarella ha già sfiorato il primo dei suoi ennesimi gol dell’ex, ma la Fiorentina pare poter controllare questo match ed aspettare l’occasione per chiuderlo.
Ecco che invece Firenze si accorge – o perlomeno si ricorda – che Montella non era poi da buttar via come allenatore. La Samp si impadronisce del pallone imponendo il suo tiki taka a chi ne era maestro, e la Fiorentina quel pallone lo rivede soltanto al ’38, quando finisce nella rete di un Tatarusanu buttatosi in ritardo sul gran tiro da fuori di Ricardo Alvarez, al termine di un’azione insistita nel corso della quale Babacar aveva reclamato per un fallo inesistente.
Nella ripresa entra Vecino per Tello e poi Zarate per lo strappato (e fischiato) Babacar. Ma la musica cambia poco. Il solo Ilicic dimostra di esserci ancora con un gran tiro al volo parato da Viviano ed una punizione stampata sulla traversa. Il solo Zarate cerca di stargli in qualche modo al passo cercando soluzioni personali, per forza di cose. Il resto della squadra non c’è più, ed alla fine la traversa colta a sua volta da Fabio Quagliarella con la complicità decisiva di Tatarusanu certifica che c’è poco da recriminare. Il gol al 95’ di Marcos Alonso è in netto fuorigioco e viene giustamente annullato. La Samp, che è in dieci da metà ripresa per una ingenuità di Correa, non avrebbe meritato di perdere. Montella merita di portarsi via questo punto, assieme agli applausi dei suoi vecchi tifosi.
Che cosa merita Andrea Della Valle, che abbandona la compagnia in silenzio appena Gervasoni fischia la fine, lo giudichi ognuno. La seconda presidenza per durata della storia viola conclude l’ennesima stagione senza vittorie, proprio nell’annata in cui la squadra era sembrata finalmente in grado di cavalcare in testa al gruppo, se opportunamente sostenuta da una società dalle braccia finalmente distese e dal portafoglio tenuto in mano ben aperto. Che cosa fa più rabbia, se questa mesta conclusione o le irrealistiche e beffarde dichiarazioni presidenziali che l‘hanno corredata, anche questo lo decida ognuno per suo conto.

Noi preferiamo salutare ancora e per l’ultima volta Cesare Maldini, che da stanotte gioca in cielo con Cruyff ed altri grandissimi del passato, ed inviare un abbraccio al figlio Paolo che lo piange. Sono stati grandi campioni entrambi. Hanno avuto anche grandi presidenti. Milano felix. Che invidia.

venerdì 1 aprile 2016

LEGENDS: Unico 10


Oggi è amarcord a ruota libera, perché chiunque l'ha visto giocare o anche solo ne ha sentito parlare alla voce Antognoni conserva in archivio una montagna di ricordi e di sensazioni come nessun altro dei tanti campioni che hanno indossato la maglia viola ha saputo suscitare.
Giancarlo Antognoni è stato la bandiera per eccellenza, in un calcio che viveva ancora di bandiere. Come riconosce lui stesso e come tutti ormai comprendono, una storia come la sua oggi non sarebbe più possibile. Il fuoriclasse assoluto, destinato ad alzare un giorno la Coppa del Mondo, che fa una scelta di vita preferendo il viola ad altri colori che gli avrebbero garantito il successo in misura ben maggiore, e l’affetto incredibile di gente che non ne aveva dimostrato granché neppure per concittadini consegnati alla storia dell’umanità come geni assoluti, da Dante Alighieri a Michelangelo Buonarroti.
Oggi, ha ammesso lo stesso Antonio, sarebbe difficile resistere a certe sirene sia per uno come lui che per un grande e ben intenzionato presidente come lo scomparso e anche lui compianto Ugolino Ugolini, che fece il gran rifiuto all’Avvocato. Già lo era pochi anni dopo, nel 1990, in un calcio dove ormai sport e business si intrecciavano già in modo praticamente inestricabile. Baggio e Pontello caddero sotto i colpi di un rinnovato assalto dello stesso Avvocato, e la storia fu molto diversa. Da allora Firenze smise di credere alle bandiere, anche se poi è stato lo stesso Antonio a riabilitare Codino.
Ma allora, negli anni 70, si poteva ancora scegliere di andare dove ti porta il cuore. Gigi Riva lo fece a Cagliari, Giancarlo Antognoni a Firenze. Le chiavi del cuore di questa città sono sue da gran tempo, quelle che gli offrì due anni fa il vicesindaco Nardella sono state soltanto un atto politico e civile, che per una volta mise d’accordo tutta la cittadinanza a maggioranza bulgara.
Buon compleanno unico 10. Pazienza se nella Fiorentina di oggi per te non c’è più posto. Tra altri 60 anni la gente di Firenze si ricorderà ancora di te, c’è da scommettere. Di chi ti ha chiuso le porte in faccia, della Fiorentina che non ha più bandiere ma solo plusvalenze, chissà.