sabato 4 febbraio 2017

Roma Fiorentina, uno spot per il nostro calcio

E’ praticamente il primo ricordo d’infanzia che ho, allo stadio con mio padre. 22 gennaio 1967, Fiorentina-Roma 2-2, Brugnera (F), Carpenetti (R), Bertini (F), Enzo (R). Per tutta la sua vita avrei sentito ripetere a mio padre che quella fu la più bella partita che lui si ricordasse di aver visto allo Stadio Comunale, non ancora intitolato ad Artemio Franchi. E con lui erano d’accordo in molti, della sua generazione. Ci ho ripensato tante volte. Viola e giallorossi da allora è come se avessero stabilito un legame kharmico. Destinati spesso e volentieri ad affidare le loro speranze di successo al bel gioco piuttosto che ad altre caratteristiche. Destinati quasi sempre a sublimare il gioco del calcio, quando si incontrano.
"Picchio" De Sisti ed il compianto Agostino Di Bartolomei
E’ una lunga storia di spettacolo e di prodezze, quella dei match tra Roma e Fiorentina. Uscite dal buio degli anni settanta, durante i quali rischiarono di finire fuori più volte dal calcio che conta prima di trovare condottieri dotati delle opportune motivazioni nonché risorse, si presentarono all’inizio del decennio successivo come l’unica seria alternativa allo strapotere juventino. Il 5 aprile 1980 una tripletta di Giancarlo Antognoni stese una Roma in cui già militavano – per dirne alcuni – Di Bartolomei, Ancelotti, Pruzzo, Bruno Conti e sulla cui panchina già sedeva il mitico Nils Liedholm. I campioni del secondo scudetto giallorosso c’erano già tutti, mancava solo Paulo Roberto Falcao, che sarebbe arrivato nell’estate successiva.
"Antonio" e Falcao
Nel 1981 l’ing. Dino Viola diede il primo assalto allo scudetto juventino. Fu fermato a due giornate dalla fine dall’annullamento – a tutt’oggi inspiegabile – del gol di Ramon Turone che gli avrebbe dato la vittoria a Torino nello scontro diretto con i rivali ed il sorpasso in classifica. L’anno dopo fu la volta della Fiorentina di Pontello, uno squadrone che conobbe due sole sconfitte, una delle quali proprio all’Olimpico con i giallorossi. Tutti ricordano il colpo di tacco volante di Falcao che liberò Roberto Pruzzo per il colpo di testa del 2-0. Al ritorno a Firenze fu ancora spettacolo, con Luciano Miani che segnò il gol che eliminava i capitolini dalla corsa al titolo. Corsa che si concluse a pochi minuti dalla fine del campionato come l’anno precedente, con un gol annullato agli avversari della Juventus, in quel caso la Fiorentina.
Nel 1983 ancora la Roma, stavolta i bianconeri non poterono fermarla, malgrado la vittoria nella sfida diretta sia a Torino che a Roma. Liedholm, Falcao & C. si cucirono finalmente il tricolore sulla maglia, Venditti poté cantare al Circo Massimo e la Fiorentina rimase a guardare, alle prese con una stagione di transizione in cui dovette inserire Passarella e rimpiazzare Vierchowod, passato proprio ai giallorossi. Ancora un anno più tardi, la corsa della Fiorentina si fermò sul secondo infortunio di Antognoni, quella della Roma sulla difficoltà di conciliare campionato e Coppa dei Campioni, di cui disputò la sfortunata finale casalinga contro il Liverpool.
Seguì una fase di cosiddetto “tono minore”, con l’unico acuto romanista nella stagione 1985-86, allorché Sven Goran Eriksson – poi ribattezzato Svengo dagli stessi tifosi capitolini – vide la sua squadra farsi battere dal Lecce già retrocesso a due giornate dalla fine, mentre era in rimonta su una Juventus stremata e a fine ciclo, quello dei Mundial.
Il "Principe" e l'Ottavo Re di Roma, agli esordi
Seguirono anni a fasi alterne. A Firenze andò in scena lo psico-dramma della cessione di Baggio alla Juve e del passaggio della società da Pontello a Cecchi Gori. A Roma il “principe” Giannini non seppe far rivivere ai suoi concittadini l’epopea di Falcao & C. Si dovette aspettare il 1993 perché succedesse qualcosa di importante. Quell’anno nella capitale fece il suo esordio con la maglia della sua squadra del cuore un ragazzino che avrebbe fatto parlare di sé a lungo, Francesco Totti.
Quell’anno successe anche qualcosa che avrebbe cementato per lungo tempo rapporti non proprio idilliaci tra le due tifoserie. All’ultima giornata, una Fiorentina costruita per spaccare le ossa a tutti, era con le ossa rotte in fondo alla classifica, dopo la cacciata di Radice da parte del figlio del padrone, già allora assai intemperante. I viola dovevano vincere e sperare che la Roma battesse in casa l’Udinese. La prima condizione si verificò, un 6-0 al Foggia in cui Batistuta & C. sfogarono tutta la loro rabbia per una stagione virata in modo incredibile verso lo scatafascio.
La seconda invece no, la Roma era in vantaggio fino a sei minuti dalla fine, quando consentì – in modo a detta di molti troppo accomodante – ai friulani di portarsi sul pareggio. L’Udinese restò in A, la Fiorentina andò in B, e da allora a Firenze se chiedete chi odiano di più tra juventini o romanisti ci devono pensare su, perché la risposta non è più semplice né immediata come prima.
Bandiere
A quell’epoca la Roma passò in mano a Franco Sensi, la Fiorentina a Vittorio Cecchi Gori. Le due squadre si sistemarono stabilmente nelle cosiddette Sette Sorelle, quelle che lottavano per lo scudetto, guidate rispettivamente da Totti e Batistuta. Ogni volta che si incontravano era spettacolo, anche se il risultato – almeno all’Olimpico – finiva per premiare sempre i giallorossi. Dopo un 3-1 a firma di Batigol nel 1992, la Fiorentina per vent’anni riportò dalla capitale a malapena un punto, nel 2006 con Tonigol. Il fuoriclasse Totti, nel frattempo laureatosi campione del mondo con la Nazionale di Lippi a Berlino, sembrava inmarcabile per i difensori viola di almeno un paio di generazioni.
Dopo il passaggio di Batigol alla Roma, il terzo scudetto romanista ed il fallimento della Settima Sorella, quella di Vittorio Cecchi Gori, con la ripartenza dalla C2 dei nuovi patron Della Valle, lo spettacolo riprese nel 2005 con una Roma sistemata stabilmente ai vertici della classifica ed una Fiorentina che remava per ritornarci. La prima vittoria fiorentina a Roma avvenne nel 2012, e fu decisiva per scongiurare un’altra retrocessione, nell’anno in cui sembrò che il progetto dei Della valle fosse andato definitivamente in pezzi. Nel 2009 Prandelli invece aveva fatto registrare uno storico 4-1 casalingo, che è rimasta l’ultima vittoria interna della Fiorentina sulla Roma fino al jolly pescato da Badelj. In quella circostanza i tifosi viola riadattarono per l’occasione la famosa canzone di Irene Grandi Bruci la città, vittoriosa al festival di Sanremo, a testimonianza di un immutato affetto verso la capitale.
Nel 2011 il prestigio viola fu affidato alla primavera, che andò a vincere Coppa italia e Supercoppa di categoria proprio sul prato degli acerrimi rivali giallorossi. Canzone viola risuonò all’Olimpico, segnando la rinascita di un settore – quello giovanile – che una volta era un vanto per la Fiorentina (al pari della Roma) e che da dopo la retrocessione in C2 aveva stentato a rinascere.
Batistuta e Totti, prima nemici poi amici
Nelle ultime cinque stagioni, i giallorossi sono stati praticamente l’unica indomabile bestia nera della rinata Fiorentina spagnola di Vincenzo Montella, e poi di quella ereditata da Paulo Sousa. Otto vittorie giallorosse, due pareggi e tre vittorie viola, tra cui le due prestigiose in Coppa Italia e Europa League dell’ultimo anno di Montella, maturate in trasferta.
La Fiorentina torna martedi sera all’Olimpico di Roma dopo il successo insperato dell’andata al Franchi, propiziato da un gol di Badelj dopo che i giallorossi avevano fatto vedere i sorci verdi ai viola per buona parte del match. L’Olimpico negli ultimi 25 anni è sempre stato particolarmente avaro di soddisfazioni per i colori viola, su entrambe le sponde. Spesso e volentieri, i giallorossi si sono trasformati in altrettanti lupi, come chiese una volta il loro allenatore Garcia, al cospetto di viola che troppo spesso si sono affacciati allo stadio della capitale come agnelli troppo leziosi.

Una speranza viva ci consola, e ci tiene accesa una piccola fiammella anche stavolta. Fiorentina – Roma o Roma – Fiorentina è da sempre uno degli spot migliori per il nostro calcio. Da quel 1967 in cui un ragazzino assistette alla sua prima edizione, per sapere poi che aveva visto la più bella partita per tanto tempo a venire.

lunedì 30 gennaio 2017

Hic sunt clientes





Leggo le solite recriminazioni sull'arbitraggio. Finché non si perderà l'attitudine al vittimismo, non andremo mai da nessuna parte (ammesso che con questa proprietà si possa mai andare da qualche parte).
Anzitutto, il fallo di mano di Bernardeschi sulla linea di porta c'é, ed è di quelli che un arbitro qualsiasi è portato a valutare come determinante e volontario.
Dopodiche, a norma del regolamento attuale, rigore ed espulsione vengono di conseguenza. Sono il primo a considerare l'estromissione di Federico dal match, e la conseguente squalifica per Roma (o Pescara?) come una disgrazia, ma l'episodio purtroppo è ineccepibile per come è stato gestito. Sui fuorigioco e i cartellini prima dopo e durante, soliti discorsi. Ci stanno bene quando sono a favore nostro, ci scatenano il complottismo endemico quando sono contro. Siamo diventati dei "Piagnoni" peggio di quelli di Savonarola.
Questione gestione societaria. Ragazzi, è questa. E non da ora, dai tempi di Prandelli. Cambiano gli allenatori, i giocatori, il prodotto non cambia. Questi due venuti dalle Marche sono due avventurieri, due incapaci, due arruffoni, due mestieranti, non so più come definirli, figuriamoci insultarli. Hanno arraffato una società di calcio per diventare qualcuno, otterranno il risultato di far diventare la Fiorentina NESSUNO. Quando poi la squadra finisce in mano ad un altro incapace come Paulo Sousa, e grazie alle campagne acquisti napoleoniche degli ultimi anni ti ritrovi ad andare a Pescara con una linea difensiva così configurata: De Maio, Sanchez, Tomovic (e meno male che si va a Pescara), il mazzo è completo. Ci si meraviglia ancora di qualcosa?
P.S. Vorrei dire in faccia a Sousa una cosa soltanto: con la squalifica di Bernardeschi domenica a chi li romperai i coglioni con le tue decisioni del cazzo?
Terzo, e concludo. Leggo di gente che ancora si lamenta del tifo. Abbonati e spettatori paganti che non cantano più, non si entusiasmano più, non "tifano" più. Il processo di involuzione di Firenze, dei fiorentini, della Fiorentina, della fiorentinità è in atto da più di vent'anni (e non la butto in politica volutamente, altrimenti....). I della Valle hanno dato soltanto la "mano di coppale", come si diceva una volta. Ai vecchi fiorentini questi due signorotti venuti dalle Marche sarebbero venuti sul cazzo in un battibaleno, e qualcuno o prima o dopo avrebbe corso, o per il Viale dei Mille, o in Piazza Savonarola, o verso la Consuma. Quella gente non c'é più. Non ci siamo più. Siamo diventati un popolo che ingoia tutto. Come le puttane.
Quando Mario Cognigni certificò la morte del "tifoso" e la sua sostituzione con il "cliente", dimenticò di specificare se quel termine lo usava nell'accezione ragionieristica o in quella latina. Chi ha fatto studi classici sa che in latino "clientes" significa "tributari", coloro cioé che bazzicavano i palazzi dei Patrizi, dei grandi signori, perché campavano di briciole gettate loro dal tavolo di quei signori, svolgevano attività collaterali utili alla casa ed alle proprietà di quei signori, facevano parte della plebe che in un modo o nell'altro sbarcava il lunario grazie alla benevolenza o all'indotto delle attività di quei signori.
Questo è diventata la gente che va allo stadio, o si mette davanti a Sky. E' chiaro che mettersi in discussione per questa "clientela" è devastante, il lavoro di psicoanalisi su se stessi è uno dei più difficili e ingrati. Molto più facile dare le colpe di tutti i mali ai complotti, agli arbitri, a Tomovic. Mai, comunque, MAI, MAI, MAI ai fratelli Labionda - Della Valle.
Alla prossima, con gli stessi discorsi.

martedì 27 dicembre 2016

Glielo porto io. E poi?



L’offerta del Tianjin per Kalinic è di quelle che non si possono rifiutare. Se davvero si trattano di 40 milioni, decidiamo chi parte e ce lo porta, anche con la propria macchina. Si può e si deve rifiutare invece quella degli inglesi, che non essendo – calcisticamente parlando – alle prime armi come i cinesi, mettono sul piatto della bilancia un assai più prosaico Simone Zaza più soldi. Siccome di giocatori ridicoli negli anni a Firenze ne abbiamo avuti a sufficienza, direi che fare passo è d’obbligo. Zaza sta bene su youtube, e lì è giusto che resti.
Se l’offerta cinese è valida, invece, si aprono due scenari. Uno è il solito da diversi anni a questa parte, e autorizza le prevedibili obbiezioni: anche Alonso era un offerta che non si poteva rifiutare, e i soldi però dove sono finiti? Chi se li è messi in tasca?
A questa obbiezione ha risposto preventivamente il consigliere Panerai all’uscita dell’ultimo CdA. Per quanto abbia una faccia che ricorda quella di Darth Sidious nella saga di Guerre Stellari, Panerai una cosa giusta l’ha detta (più che giusta, indicativa dello stato delle cose): al prossimo mercato, bisogna rientrare di altri soldi.
Manco fosse il Monte dei Paschi, la Fiorentina del fair play finanziario è ultimamente diventata un pozzo senza fondo. Una idrovora che macina quattrini in quantità industriale, è il caso di dire trattandosi di una holding e non più di una società sportiva (Darth Cognigni docet).
Al mercato di gennaio, è già stata messa in preventivo una cessione. Lo sappiamo tutti. In principio era Badelj, su cui si stava aprendo una parvenza di asta tra Milan e Inter, una specie di derby cinese. Poi Zarate, che si pensava dovesse liberare quel posto in Tribuna Autorità ormai suo di diritto per tutta la restante durata della gestione Sousa.
Quando già le prestazioni strepitose di Federico Bernardeschi cominciavano ad autorizzare scenari alternativi ed inquietanti, ecco l’offerta asiatica per Nikola Kalinic.  Secondo il primo scenario di cui stiamo trattando, su 40 milioni 35 buoni se li metterebbe intasca il tesoriere viola, o quello della Tod’s, fate voi. Ennesimo sacrificio umano alla divinità divoratrice di quattrini che viene adorata in Viale Manfredo Fanti a partire dal 2002.
Non vale la pena di parlarne, bilancio risanato (almeno per qualche mese), fine dei discorsi, a gennaio si razzoleranno un paio di prestiti. Tanto, per arrivare ottavi o noni basterebbe riprendere anche il buon Diamanti, o giù di lì.
Poi c’è il secondo scenario. Si vende per reinvestire. Prima che vi vada di traverso dalle risate ciò che resta del panettone natalizio, proviamo a ragionarne.
Dalla partenza di Kalinic non ne può venire che bene. Oltre al denaro fresco da reinvestire (ripeto, non spanciatevi dalle risate), sarebbe in primo luogo finita la farsa del modulo ad una punta che tanti punti ci è costato in questa disgraziata stagione. Non potendoci insomma liberare di Sousa prima di maggio, gli toglieremmo di mano il principale strumento delle sue sousate.
Da febbraio in poi, se la dovrebbe giocare con Babacar titolare e Zarate (opportunamente ritirato dal mercato e fatto scendere dalla Tribuna) al suo fianco come seconda punta. Un diecino speso su Gabbiadini del Napoli semplificherebbe la vita non tanto a Sousa quanto a chi continuerebbe a seguire le prestazioni della Fiorentina, dallo stadio o da casa.
Su Badelj, discutiamo. Non è Eraldo Pecci, ma negli equilibri di centrocampo viola, con Borja Valero prossimo alla casa di riposo, con Gonzalo Rodriguez in procinto di seguire le orme di Osvaldo e darsi in pianta stabile al rock, il croato il cui nome stranamente non finisce in IC sarebbe difficilmente sostituibile per uno staff di mercato viola (che poi quest’anno è di nuovo una one man band, quella salentina di ritorno) che non è capace di programmare acquisti mirati più di quanto uno scolaro delle elementari sia capace di gestire i compiti delle vacanze prima della sera della Befana. Senza Badelj, il centrocampo viola si chiama Vecino e basta. E ringraziare (o maledire a seconda dello scenario) che nel frattempo sta esplodendo Federico Chiesa.
Poi ci sarebbe da spendere per la difesa. Nello scenario due, si prende quel ciarpame arrivato in estate più Tomovic, si accompagna ai confini della Terra di Mezzo con diffida a farsi mai più rivedere, e si comprano un paio di difensori decenti. Nello scenario uno, chi è scoppiato a ridere da almeno un paio di paragrafi continui pure, perché il tesoriere viola vi esibirà una bella lingua di Menelicche.
Diamo Kalinic ai cinesi, prima che ci ripensino. Poi si discute cosa fare dei 40 milioni. 10 alla Fiorentina e 30 in tasca ai Della Valle, visti i chiari di luna, ci si potrebbe anche stare.

domenica 27 novembre 2016

La dura vita dell'allenatore nella Firenze dei Della Valle

La monarchia costituzionale fu inventata nel diciottesimo secolo per sollevare i monarchi dalla responsabilità delle loro azioni, soprattutto da quel certo momento in poi in cui prese piede l’usanza di farla valere sul palco della ghigliottina. In sostanza, il ministro o maggiordomo pagavano e pagano al posto del loro sovrano, mettendoci la faccia e in qualche caso la testa.
La filosofia politica ha fatto tanta strada da allora, estendendo il proprio campo d’azione tra l’altro a tutti quei settori che prevedono l’esistenza di un padrone, di un’azienda, di un fatturato e di azionisti – o quantomeno clienti – a cui rispondere.
Eccoci quindi nel mondo del calcio. Non c’è più un Luigi XVI a cui salvare la testa, ma tanti presidenti-proprietari, padroni assoluti come tanti Re Sole fino al giorno in cui la squadra va male, e allora bisogna dare in pasto alla folla inferocita una testa, appunto. Non di un ministro, in questo caso, ma di un allenatore.
E’ la prima cosa che imparano i presidenti del calcio. L’allenatore sta lì a prendersi gli osanna e le maledizioni dei tifosi. Il Presidente, quello non si tocca mai, non si contesta. Perché….. se va via…..
A Firenze, dal 2002 c’è una squadra – azienda. E avresti detto che aziendalisti come i Della Valle, così precisi e rigorosi nelle altre aziende del loro gruppo, avrebbero rifuggito inorriditi da certi malcostumi tipici del calcio. E invece…..
Gli allenatori a Firenze durano poco, storicamente. Il record di permanenza, sei stagioni, a tutt’oggi rimane legato alla memoria di una figura leggendaria: Fulvio Bernardini, il mister del primo scudetto. Proprio con i Della Valle siamo andati vicini a superarlo, con Cesare Claudio Prandelli, che di stagioni da queste parti ne ha rette ben cinque. Sappiamo tutti com’è andata a finire, “si cerchi un’altra squadra” proprio la sera di Liverpool. Qualcosa non funziona nel rapporto degli imprenditori marchigiani con i loro dipendenti in tuta da calcio. Ce ne accorgemmo allora, quando l’illusione di una proprietà che credevamo diversa svanì nello spazio di una nottata e di un girone di ritorno.
Nel 2002, doveva essere Eugenio Fascetti a guidare la Fiorentina retrocessa in B di Vittorio Cecchi Gori. Ma la B diventò C2, la Cecchi Gori Productions diventò una società fallimentare, ed al suo posto la Giunta Domenici tirò fuori dal cappello messole in mano dalla politica romana il Gruppo Tod’s. Che all’inizio ebbe il merito di inventarsi in soli 20 giorni società e squadra. Giovanni Galli ingaggiò l’ex compagno di quasi-scudetto Pietro Vierchowod, per dare la scalata alla C1.
Pietro durò nove giornate. Allenatori non ci si improvvisa, ed il russo scoprì a sue e nostre spese di non avere l’esperienza ed il carisma per portare Riganò & C. ad una marcia trionfale. Al suo posto fu chiamato il navigato Alberto Cavasin, che in C2 se la cavò egregiamente. Dalla C2 alla B, grazie ai meriti di blasone, il passo però fu troppo breve, e nel febbraio 2004 anche Cavasin fu giudicato non all’altezza del compito. In serie cadetta, la squadra era quattordicesima, Firenze voleva la serie A, l’azienda pure. Arrivò il mister tifoso Emiliano Mondonico, vecchio filibustiere di tutte le serie.
Mondo vinse lo spareggio, ma se ne disperò quasi. Aveva annusato che l’aria di Viale Manfredo Fanti era diventata pesante per lui e per gli eroi venuti su dalla C2. Anche lui arrivò fino al novembre successivo, poi passò la mano a Sergio Buso, allenatore fino a quel momento dei portieri. Il povero Buso resse tre mesi, finendo vittima di logiche di sistema che andavano al di là dei suoi demeriti. La Fiorentina dei Della Valle era stata antipatica da subito all’establishment di quella serie A che aveva appena riconquistato. A Genova finì la partita in otto, tanto per gradire. Altro che cattivi pensieri, come quelli che vennero al Grande Timoniere Dino Zoff. Che comunque portò la squadra in salvo con una rimonta alla Chiappella.
E venne Claudio Cesare, vide e vinse. Quarto posto, Champion’s League e Toni Scarpa d’Oro. Peccato che il conto di Calciopoli arrivò proprio quell’estate. Meno quindici, e tanti avvisi di garanzia. A Folgaria quell’anno al raduno c’era solo lui. Diventò per la Fiorentina una specie di Alex Ferguson, salvando la squadra e portandola al terzo posto virtuale. Ma i Della Valle non tolleravano i Ferguson, al massimo i Cognigni. E quando un bel giorno Prandelli chiese conto dei proclami di vittoria entro il 2011, gli fu risposto dal patron Diego in persona: “lei è l’allenatore? E allora pensi ad allenare”.
A novembre 2009 il giocattolo di Prandelli andò in pezzi. Società improvvisamente demotivata, calciatori che ressero di nervi fino al furto di Ovrebo a Monaco. Poi fu Caporetto, 17 sconfitte stagionali. Prandelli la squadra se la trovò davvero, era la Nazionale, nientemeno. Ad ottobre dell’anno dopo, in visita a Firenze con gli azzurri, Andrea Della valle lo accolse con la storica frase “Un giorno mi ringrazierai”. La risposta di Cesare fu altrettanto storica: “Se vuoi posso farlo anche adesso”.
Sinisa Mihajlovic aveva soprattutto la colpa di venire dopo di lui, l’allenatore più amato dai fiorentini dopo Bernardini, Pesaola e De Sisti. Il serbo aveva poca esperienza, come già Vierchowod dieci anni prima, e non aveva ancora grandi idee di gioco. Pagò per sé e per tutti sempre di novembre (mese maledetto per gli allenatori, viola e non) nel 2011. Gli fu fatale l’ennesimo pareggio in una annata che ne vide un visibilio.
Dentro Delio Rossi, aziendalista senza azienda. Via i campioni a cui si stava spegnendo la luce, squadra che affondava nelle parti basse della classifica. Con il Novara in casa a tre giornate dalla fine, il dramma dei cazzotti a Llajic e dei due gol ospiti che stavano spingendo i viola di nuovo in B. Al risultato ci pensò il reprobo Montolivo. A salvare Rossi non poteva ormai pensarci nessuno. Le ultime due giornate in panchina andò Vincenzo Guerini, anche lui ripagato a tempo debito con un bel calcione nel fondo schiena.
Sotto con Vincenzo Montella, un’altra scommessa. Questa volta vinta, perché fu dotato di giocatori validi, con motivazioni di rivalsa forti. Tre quarti posti a fila, due partecipazioni alla Europa League molto buone (con possibili risultati ancora migliori sfumati per ingenuità, contro Juventus e Siviglia), una Champion’s League mancata di un soffio grazie alla supponenza di Pizarro contro l’infame Montolivo.
Anche Montella, come Prandelli, ebbe l’ardire di chiedere in sede se eravamo questi e questi restavamo, o se invece potevamo fare il benedetto 31 dopo il 30. Gli fu risposto che poteva rimanere al mare. Mentre partiva l’ennesima campagna plusvalenze, la società pescava l’oscuro Paulo Sousa, fresco vincitore del campionato svizzero a Basilea, che la gente però ricordava piuttosto per essere stato uno dei gobbi di Lippi.
La Fiorentina partì a razzo nella stagione 2015-16, la gente perdonò volentieri il gobbismo passato a Paulo Sousa e il depauperamento tecnico del parco giocatori alla società. Fino a Natale la squadra era prima o giù di lì. A gennaio, auspicava il tecnico prima ancora dei tifosi, qualcuno si sarebbe frugato in tasca per rinforzarla e tentare fino in fondo di ripetere qualcosa che non succedeva più dal 1969.
Tino Costa, Kone, Benalhouane. I sogni muoiono sempre all’alba del 1° febbraio, in Viale Manfredo Fanti. Girone di ritorno da scoppiati, come l’ultimo di Prandelli. Fiorentina che terminò quinta con fatica. La gente si aspettava che il tecnico deluso rassegnasse le dimissioni, ma egli preferì lo stipendio e rimase a mugugnare e mischiare le carte già sparigliate dal ritorno di Corvino e dalla ripresa dell’Età d’Oro delle Plusvalenze.
Il resto è storia attuale. Che ci riporta al tema iniziale. Compare lo striscione che inneggia al boia, ma la testa è quella sbagliata. Il maggiordomo ha colpa fino ad un certo punto se il servizio è scadente, non parliamo del governo. I tempi si fanno di nuovo cupi. Dopo 14 anni, l’11° allenatore sta per l’undicesima volta per concludere malamente il suo rapporto con il suo datore di lavoro e nostro patron.

Avrà mai la gente di Firenze il coraggio di consegnare al boia (metaforicamente parlando) la testa giusta? Quella del Re?

sabato 19 novembre 2016

Ricominciamo?

Superchi, Rogora, Mancin, Brizi, Ferrante, Esposito, Amarildo, Merlo, Maraschi, De Sisti, Chiarugi. I ragazzi fiorentini della fine degli anni Sessanta la imparavano a memoria questa filastrocca, più facilmente di eifusiccomeimmobile o di lanebbiaagliirticolli. Era la filastrocca che ripeteva tutte le domeniche lo speaker dello Stadio Comunale (allora Artemio Franchi era vivo e vegeto, e stava in Tribuna d’Onore, si chiamava così, ad applaudire insieme ai suoi concittadini gli eroi del secondo scudetto).
Eraldo Mancin era una di quelle invenzioni dei talent scouts di Nello Baglini. L’uomo che aveva rinverdito i fasti di Enrico Befani, ma con una variante sostanziale: puntava sui giovani anziché sui campioni affermati. La Fiorentina yeye era stata assemblata cedendo nomi che stavano facendo la storia del calcio, Hamrin, Albertosi, Brugnera, ed acquistandone altri che promettevano di farla in futuro.
E la fecero, nell’annata 1968-69 una squadra di una città al di sotto del corso del Po interruppe nuovamente il predomino nordista, cinque anni dopo il Bologna di Fulvio Bernardini. Tra questi ragazzi che diventarono uomini e campioni sotto la Torre di Maratona, nell’anno in cui secondo certi pronostici non proprio fausti avrebbero dovuto lottare per non retrocedere, c’era anche lui, Eraldo Mancin da Porto Tolle (RO).
Preso dal Venezia poco più che ventenne, vinse lo scudetto e poi fu sacrificato alle necessità di bilancio di Baglini, che lo spedì a Cagliari prendendo il più affermato Giuseppe Longoni. Viola e sardi si scambiavano spesso giocatori in quegli anni. A Mancin andò bene, perché in Sardegna vinse il secondo scudetto consecutivo l’anno dopo, impresa riuscita nella storia del calcio italiano soltanto a sei giocatori, tra cui un certo Roberto Baggio. A Longoni andò peggio, due secondi posti. Scherzi della vita.
Se n’è andato a 71 anni Eraldo. Un altro eroe viola che se ne va, la nostra Hall of Fame perde pezzi, mentre il presente stenta a consegnarle nuovi eroi. Domani si gioca con il lutto al braccio.
Non sarà la sola novità in casa viola. Ce ne sono altre, alla ripresa del campionato dopo l’amichevole di lusso, lo scontro di civiltà tra chi mette i calzini bianchi sotto i sandali e chi – per quanto decaduto (ma tutt’ora imbattuto, contro i tedeschi) - fa dell’estetica a volte più della sostanza una questione di vita.
La Fiorentina a cui la Nazionale riconsegna un Astori galvanizzato ed un Bernardeschi forse ancora più frastornato di quanto non lo abbia reso Paulo Sousa, scende in campo contro l’Empoli degli ex Pasqual e Gilardino (circostanza particolarmente dolorosa, per lui e per i tifosi, nel caso di Manuel, capitano e gentiluomo). E lo fa sapendo già quasi ufficialmente di annoverare tra i quadri dirigenziali il nome che tutta Firenze aspettava.
Giancarlo Antognoni sta per firmare da vicepresidente, tutto è pronto. L’Unico 10 parla già da quadro viola, e lo fa con la consueta via di mezzo fra la passione di una vita (la Fiorentina, a suo stesso dire) e l’aplomb quasi britannico con cui da sempre commenta e gestisce le cose del calcio.
Firenze vorrebbe gioirne, e invece è preoccupata, almeno a livello delle correnti sotterranee del tifo che attraversano la città come i percorsi avventurosi dell’Inferno di Dan Brown. Antognoni non si discute, né lui del resto farebbe mai nulla per farsi discutere, c’è da giurare. Come manager, dette già ottima prova di sé ai tempi di Vittorio Cecchi Gori. Ma il fatto è che adesso gli viene chiesto di mettere la faccia per coprire quella abbastanza dimessa – diciamo così – di una società che definire prossima ad un nuovo anno zero è usare un eufemismo.
La Fiorentina sarà anche sembrata in ripresa grazie al lavoro del suo allenatore, come l’ha vista il nostro neo vicepresidente. In realtà, per i suoi tifosi è stata più che altro motivo di noia quando non di ansia e di agonia. Nessuno si sogna di dire ad una persona del carisma e dell’intelligenza umana e calcistica di Antonio cosa è opportuno dire e fare, ma insomma non vorremmo che la nostra migliore bandiera fosse usata, sventolata per distrarci, mentre gli eroi sbiaditi dell’ultima generazione senza più bandiere continuano a far danni in campo, e mentre altri manager sicuramente meno bene intenzionati di Giancarlo continuano a farne di peggio nella stanza dei bottoni.
Insomma, tra una bandiera che salutiamo per l’ultima volta ed un’altra che abbiamo quasi paura ad impugnare di nuovo per non rovinarla, la Fiorentina ritrova il campionato, cercando di dimenticarsi e di far dimenticare quanto problematico e scialbo, per non dire peggio, fosse prima della sosta del calzino bianco.
Empoli è un campo amico soltanto in apparenza. D’accordo, ci si va perfino in motorino, è quasi più trasferta San Piero a Sieve durante la preparazione estiva. Ma gli empolesi aspettano questa come la partita della vita. L’anno scorso, con un organico più forte loro ma anche e soprattutto più forte noi, ci tolsero quattro punti su sei, e nominalmente si lottava per il vertice. Non è il caso di aspettarsi gite fuori porta e scampagnate, il presidente Corsi ci manderà di traverso il pranzo più che volentieri, se appena può. Per poi tornare magari ad ammorbidire il tackle in occasione della visita di compagini provenienti da metropoli fuori regione. Ma questo è un problema suo.
C’è un 2016 da concludere mandandolo in archivio con un connotato meno pessimo di quello registrato fino ad oggi, tra la fine del campionato scorso e l’inizio di quello attuale. Preparandoci poi al solito mese di gennaio da Pantoprazolo. Quest’anno non ci sono tesoretti, il che vuol dire che a inizio anno nuovo si vende per far cassa. Le profezie millenaristiche circa lo stadio nuovo dovrebbero avere un rigurgito sempre nello stesso periodo, anche se il ping pong Cognigni Nardella francamente comincia a stancare anche più del gioco di Sousa. Per rivedere la Fiorentina come ai tempi del compianto Eraldo Mancin, i tempi sono storici, e non è detto che sia una storia si compirà nell’arco delle nostre vite.
Radiomercato vuole il Chelsea di Antonio Conte interessato fortemente a Milan Badelj, come terzo incomodo del duo cino-milanese, e anche a Nenad Tomovic. Mentre le sirene di mercato risuonano nuovamente a proposito di Federico Bernardeschi. Sensazione è che anche stavolta se Ulisse non si lega al timone della nave…..

Giancarlo Antognoni si è assunto un compito assai difficile.

venerdì 21 ottobre 2016

L'Uccellino vola ancora, Firenze sospira di sollievo



La notizia di Kurt Hamrin colto da un malore scuote Firenze, in questo annus horribilis che miete vittime illustri in quantità e che ha toccato già il suo Pantheon viola portandosi via Beppe Pecos Bill Virgili. Uccellino per fortuna sta meglio, già in procinto di essere dimesso dall’ospedale e sulla via della convalescenza.
Per capire l’importanza di questo giocatore, di quest’uomo e del sentimento che lo lega – ricambiato – a questa città, basti dire quello che sanno, o dovrebbero sapere, tutti. Per la generazione dei nostri padri, Kurt Hamrin è stato quello che per la nostra è stato Omar Gabriel Batistuta.
L’Uccellino e il Re Leone, la grande storia della Fiorentina è ricompresa sostanzialmente tra queste due figure monumentali, 303 gol in due, 3 Coppe Italia in due, uno scudetto a testa ma vinto altrove, una Coppa delle Coppe Kurt, mentre Omar Gabriel si fermò alla semifinale in cui zittì il Nou Camp, con il Barcellona che al ritorno zittì il Franchi.
Pare proprio che Uccellino ce la farà a festeggiare il prossimo compleanno, l’ottantaduesimo, il prossimo 19 novembre. La partita per lui non si è ancora conclusa. La sua leggenda ha ancora un lieto fine. Ed allora ripercorriamola.
In mezzo al futebol sudamericano di pregevole fattura che l’aveva resa grande, la Fiorentina di Enrico Befani andò a trovare il più grande di tutti vicino al circolo polare artico. Kurt Roland Hamrin era il quinto figlio di un imbianchino svedese, che giocava da dilettante nella squadra della capitale, l’AIK Stoccolma. Nel 1955, a ventun anni, vinse per la prima volta la classifica dei cannonieri del suo paese con 22 gol in altrettante partite giocate. Il suo contratto prevedeva 50 corone a partita vinta e zero in caso di sconfitta. Hamrin, per vivere, doveva per forza diventare un fuoriclasse e nel frattempo continuare a lavorare come zincografo in un giornale svedese.
Nel 1958, fu selezionato come centravanti della Svezia, che organizzava i mondiali in casa propria. Era la squadra favolosa di Gren, Nordhal e Liedholm, che si arrese in finale soltanto davanti all’altrettanto favoloso Brasile di Garrincha e dell’esordiente Pelè. Hamrin finì il torneo risultando capocannoniere con 4 reti. Era già stato notato due anni prima dalla Juventus, che poi però lo ritenne troppo fragile, cedendolo al Padova di Nereo Rocco.
Narra la leggenda che lo svedese facesse ombra a Marisa Boniperti, in fase calante, che pertanto fu ben felice di accogliere John Charles e Omar Sivori e veder andar via quel concorrente scomodo. Il paron Rocco invece lo accolse a braccia aperte, lo mise accanto a Brighenti e si godé i suoi 20 gol in trenta partite, dandogli il soprannome provvisorio di faina.
Quello definitivo l’ebbe a Firenze, dove approdò l’anno dopo, allorché Befani si trovò a dover cercare il successore di Julinho. Uccellino che vola, affibbiatogli per la sua leggerenza e agilità da Beppe Pegolotti, leggendario giornalista della Nazione. Nei nove anni successivi, Kurt ebbe la sua consacrazione, segnando 151 gol (record viola fino al 14 maggio 2000, allorché fu superato da Batistuta) con una media partita pari a 0,48, lui che di partite in serie A ne giocò alla fine 400.
Non vinse mai la classifica cannonieri in Italia, ma è stata l’ala destra viola più prolifica di tutti i tempi. Suo è il record di gol segnati in trasferta, cinque, in quel 7-1 in casa dell’Atalanta che è a tutt’oggi la vittoria più rotonda di sempre della Fiorentina fuori casa.
Nella sua epoca, la Fiorentina dei campioni di Befani e Bernardini prima, e di Longinotti e Baglini e della linea verde poi non scese mai al di sotto del settimo posto in campionato, e vinse la prima edizione della Coppa delle Coppe.
Quando nel 1967, la Fiorentina lo cedette al Milan promuovendo in prima squadra il giovane Primavera Luciano Chiarugi, sembrò un buon affare. Uccellino aveva 33 anni, Luciano ne aveva 20. Il destino in realtà si divertì alla grande. Prima toccò ad Hamrin, vecchia gloria nella squadra rossonera delle vecchie glorie Trapattoni e Maldini (più il giovane Rivera) a vincere lo scudetto. Poi, l’anno dopo, 1969, toccò alla Fiorentina di Chiarugi a trionfare, mentre lo svedese risultava decisivo per la vittoria milanista in Coppa dei Campioni.
Dopo aver appeso le scarpe al chiodo ed aver tentato brevemente la carriera di allenatore a Vercelli, Hamrin tornò in patria e avviò un’attività imprenditoriale, lui che da ragazzo era stato operaio. Fino al 2005 la sua ditta di import-export di ceramica tra l’Italia e la Svezia ha retto, poi, come tanti, ha dovuto cedere alla concorrenza cinese.
Negli ultimi anni si è stabilito a Coverciano, dove ha svolto attività di talent scout (per il Milan, la Fiorentina dei Della Valle non ha trovato posto per lui, come per altre bandiere) e ha insegnato calcio nella Settignanese. L’Uccellino, come tanti altri, alla fine ha fatto l’ultimo nido a Firenze.