Dopo l’addio di
Daniel Alberto Passarella, alla Fiorentina era venuto a mancare il leader carismatico,
l’uomo-squadra, prima ancora che un fuoriclasse capace da solo di fare la
differenza e risolvere le partite. I Pontello nel frattempo stavano ridimensionando
programmi e obbiettivi, pur cercando di portare a Firenze giocatori che in
qualche modo potessero ancora entusiasmare i tifosi e dare un’impronta alla
squadra viola.
Andò male, o
poco bene, con un altro argentino, il fresco campione del mondo Ramon Diaz, che
in due anni giocò a Firenze 53 partite segnando 17 gol, ma senza mai incantare.
Andò molto meglio con un altro campione sudamericano trovato quasi per caso alle
porte di casa e destinato a
rimanere nel cuore dei fiorentini: Carlos Caetano Bledorn Verri, detto Dunga, in portoghese il
Cucciolo.
Il campione
meno brasiliano nella storia del Brasile, di ascendenza italiana e tedesca,
arrivò in Italia scoperto dal Pisa di Romeo Anconetani, che in quegli anni era
un vero talent scout. Nel 1988 Pontello lo portò alla Fiorentina, dove sarebbe
rimasto anche dopo la fine della sua presidenza, fino al 1992. Dunga si dimostrò
il degno erede di Passarella, di cui ripetè le prestazioni segnando anche 8
reti in 124 partite. Un condottiero, un leone in campo, l’uomo capace di fare
reparto da solo, in difesa, e di tenere in alto una squadra che di talenti veri
e propri ne schierava sempre meno.
La carriera di
Dunga a Firenze si sovrappose alla fase finale di quella in viola di Roberto
Baggio. Fu lui il regista della B&B, la premiata ditta del gol Baggio e
Borgonovo. E coincise anche con il periodo iniziale della carriera di un altro
campione sudamericano, di nuovo argentino, arrivato a Firenze anche lui quasi
per caso e destinato ad essere ricordato come il più grande ed il più forte di
tutti.
Proprio per lo
scarso feeling con il nuovo arrivato, l’argentino Gabriel Omar Batistuta, finì
per concludersi anzitempo l’esperienza fiorentina del Cucciolo, che si trasferì
a giocare a Stoccarda. Nel 1994 fu proprio lui ad alzare, da capitano, la Coppa
del Mondo vinta nella finale proprio contro quell’Italia che non aveva più posto
per lui nelle sue squadre. Era quello, come lui del resto, il Brasile meno
brasiliano di sempre, ma sulla sua solidità si infransero i sogni di Arrigo
Sacchi, dell’ex compagno di squadra Roberto Baggio e di una nazione calcistica
che sperava di vendicare la delusione di Italia 90. Una speranza vanificata una
volta di più dai calci di rigore fatali, ma anche dalla solidità inconsueta
data alla difesa carioca dal Cucciolo, che i tifosi fiorentini ricordavano
bene.
E c’è da
credere che in una Firenze allora, nel 1994, per niente riconciliata con una
Nazionale simbolo di una Federcalcio vissuta come nemica e asservita alle
squadre strisciate, molti in occasione di quella finale fecero il tifo
proprio per lui, contro i colori azzurri.
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