venerdì 1 gennaio 2016

Giancarlo Antognoni, il giorno che si fermò il cuore di Firenze

22 novembre 1981, Stadio Comunale (ancora non si chiamava Artemio Franchi, il quale peraltro era ancora vivo e vegeto). Io c’ero. La Fiorentina quell’anno era stata costruita per vincere. Alla nona giornata di campionato però non aveva ancora vinto un granché. Aveva incassato anzi già due sconfitte, a Roma con i giallorossi di Falcao e Pruzzo (e ci poteva stare) e a Cesena (e questa aveva scatenato i primi malumori nella tifoseria).
A Firenze era dunque arrivato il Genoa, che quell’anno era una neopromossa, dopo tre anni di calvario in serie B. I rossoblu erano retrocessi alla fine del campionato 1977-78 proprio al posto della Fiorentina, al termine di un drammatico spareggio conclusosi sullo 0-0 e deciso dalla rete dell’interista Scanziani che a sei minuti dalla fine del campionato a San Siro aveva condannato il Foggia, spedendolo in serie cadetta insieme ai genovesi, che avevano un punto in meno dei viola.
Quell’anno il divario tecnico era troppo, ed il Genoa non era in grado di cercare vendette. Era la Fiorentina semmai a dover cercare conferme. Nei suoi ranghi, c’era un giocatore in particolare che aveva bisogno di mettersi in luce in quel momento, di smentire quello che la stampa nordista – come sempre interessata – scriveva su di lui, sulla sua scarsa tenuta fisica e sulla sua scarsa utilità tecnico-tattica.
Giancarlo Antognoni era un titolare fisso di quella Nazionale di Enzo Bearzot che aveva incantato il mondo ai mondiali di Argentina, arrivando veramente ad un soffio da un titolo che avrebbe strameritato. Era anche da diverse stagioni il capitano e la stella indiscussa di una Fiorentina che non aveva saputo rinnovarsi dopo la generazione ye ye del secondo scudetto. Le nuove promesse viola si erano spente tutte, ad una ad una. Tutte meno una, lui, la luce, l’unico 10, l’unica ragione per cui alla fine degli anni settanta a Firenze si andava allo stadio.
Per diverse annate, oltre quella drammatica del 1978 conclusasi come sopra detto, Antonio aveva retto da solo sulle proprie spalle il peso di una squadra dalle tradizioni gloriose e di una intera città che non si rassegnava al declino, meno che mai in ambito sportivo. Aveva giocato sempre, anche quando le sue condizioni fisiche lo avrebbero sconsigliato (un po’ come più tardi sarebbe successo ad un altro portacolori epico, Gabriel Omar Batistuta).
Tormentato a lungo da una fastidiosa tarsalgia, il ragazzo che giocava guardando le stelle era riuscito lo stesso a diffondere un po’ ovunque la sua luce rischiaratrice della notte altrimenti fonda viola. Ma in Nazionale aveva diversi concorrenti, da Evaristo Beccalossi a Renato Zaccarelli che erano sostenuti dai quotidiani di Milano e Torino, ai quali non pareva vero di gettare la croce addosso ad un campione che in certi momenti giocava su una gamba sola.
Fiorentina - Genoa veniva quindi dopo un periodo incerto dei viola, come si è detto, e dopo un paio di sostituzioni subite da Antonio in Nazionale. Il numero 10 quella domenica 22 novembre era una furia della natura. Voleva dimostrare una volta per tutti che lui era l’interno di centrocampo più forte in Italia, uno dei più forti del mondo e una stella assoluta di quella Nazionale che un anno dopo sarebbe andata a vincere il titolo mondiale in Spagna.
Al gol iniziale di Daniel Bertoni pareggiò il Genoa con Gorin. A inizio ripresa, Antonio trasformò senza problemi il rigore che riportò avanti la Fiorentina. Ne aveva sbagliati tanti nel periodo buio della tarsalgia, ma ora il suo piede funzionava perfettamente. E il suo piede di eguali al mondo ne aveva pochi. L’unico 10 sentiva che quella poteva essere la sua giornata, e si avventava su tutti i palloni in cerca di altre prodezze. Al 12’ minuto un rilancio della difesa lo trovò avanti a tutti, al di là degli stessi difensori genoani. Il fuoriclasse viola si fece mezzo campo in fuga, fino all’area avversaria. Tra lui ed il secondo gol, il terzo della Fiorentina che avrebbe chiuso il match, c’era ormai solo un ostacolo, il portiere.
Silvano Martina, portiere fino a quel momento lontano dalle luci della ribalta, gli si lanciò contro scoordinato, in preda al panico. Giancarlo vide la possibilità di metterlo fuori causa con una finta, spostando il pallone di testa. Sulla sua testa arrivò invece il ginocchio sollevato goffamente da Martina. L’impatto fu tremendo, un intero stadio ammutolì all’istante, come se quella ginocchiata avesse colpito ciascuno dei 45.000 presenti.
La scena che seguì, il minuto scarso in cui Giancarlo Antognoni smise di respirare, il suo cuore si fermò e fu tra la vita e la morte, a Firenze non potrà dimenticarla mai nessuno, di quelli che c’erano e anche degli altri che l’hanno sentito raccontare o hanno visto le immagini alla TV. Il genoano Onofri che, a due passi, si mette le mani nei capelli, l’arbitro Casarin che raggelato chiama i soccorsi, il massaggiatore della Fiorentina, il mitico Pallino Raveggi ed il medico sociale del Genoa dott. Gatto che arrivano di corsa a rianimare il corpo esanime del Capitano viola sono i fotogrammi indelebili di quel drammatico film che nessuno qui vuol più rivedere.
Giancarlo riprese a respirare grazie al loro intervento, la folla che riempiva lo stadio lo vide uscire in barella senza sapere se era vivo o morto, e poté solo tributargli uno dei più fragorosi applausi che si siano mai sentiti su un terreno di gioco. Il cuore di Firenze ritornò a battere solo mezz’ora dopo, quando lo speaker del Comunale annunciò finalmente (la partita si era conclusa con la vittoria 3-2 della Fiorentina, ma la gente era ancora ferma al suo posto ad aspettare un altro risultato) che Giancarlo Antognoni respirava regolarmente, si era svegliato ed era fuori pericolo.
In realtà fuori pericolo ci andò realmente qualche giorno dopo, e la notte che seguì a Firenze furono in pochi a dormire tranquillamente. Il prof. Mennonna gli ricostruì la testa al C.T.O. e lo restituì sano e salvo alla sua gente, che da quel momento dovette solo preoccuparsi di come avrebbe fatto la squadra viola a proseguire un campionato di vertice senza il suo faro, la sua stella più brillante, i suoi gol ed i suoi assist.
Che infatti alla fine mancarono dolorosamente ad una squadra che perse uno scudetto soltanto per un punto, maturato come tutti sanno a vantaggio della Juventus nel confronto a distanza sui campi di Cagliari e Catanzaro. Il 16 maggio 1982 arrivò un altro dolore, a parere di molti evitabile se solo la sorte non avesse privato Firenze della sua arma migliore nella lotta contro la Torino e l’Italia bianconera.
Il momento culminante di quel lungo, favoloso, drammatico, maledetto campionato fu tuttavia il 21 marzo 1982. Dopo un intero girone coincidente con il calvario del Capitano ferito, a Firenze arrivò il Cesena, l’ultima squadra capace di battere i viola quell’anno. A quell’epoca lo speaker subito prima dell’inno (che in quel momento non era quello storico di Narciso Parigi) leggeva le formazioni delle squadre. Quando fu il momento della Fiorentina, arrivato al numero nove ed al nome di Ciccio Graziani, lo speaker ebbe un attimo di esitazione, quanto bastava per fermare di nuovo il cuore ad uno stadio intero. E poi, quel nome, scandito chiaramente e seccamente, come un grido di guerra liberatorio: Antognoni.
L’urlo dello stadio comunale fu una delle cose più emozionanti che sia dato di ricordare ad un tifoso viola. Antonio fece il suo rientro in campo con i capelli corti, come non l’aveva mai visto nessuno e nessuno l’avrebbe mai più visto in seguito, e la fascia di capitano al suo braccio. Girandosi verso la Fiesole, gli si parò davanti lo striscione che vi campeggiava quel giorno: “FORZA ANTONIO, L’INFERNO E’ FINITO, IL PARADISO TI ATTENDE”.
Non era destinato al paradiso quell’anno Giancarlo Antognoni. Non in viola, dove il suo gol segnato con la testa rattoppata che sbancò Napoli qualche domenica dopo risultò inutile, vanificato dal rigore di Liam Brady a Catanzaro. Né tutto sommato in Nazionale, dove fu costretto per infortunio a saltare la finale del Santiago Bernabeu e ad assistere a bordo campo al trionfo di una squadra a cui aveva dato un contributo decisivo nella conquista della Coppa del Mondo.
Come dice Erodoto nelle sue Storie, “presso gli antichi Greci vi era la credenza che le doti particolari di un essere umano, quali l’eleganza, l’abilità nella danza o nell’arte della guerra, suscitassero l’invidia degli Dei, la cui collera colpiva senza pietà colui che essi ritenevano troppo fortunato”.
Firenze aveva e ha continuato a perdere scudetti, Coppe e quant’altro. Ma da quarant’anni ha Giancarlo Antognoni, e se lo fa bastare, orgogliosa. A lui ha legato il suo destino, e lui ha legato il proprio a quello di Firenze. Che rischiò di perderlo soltanto in un pomeriggio del novembre 1981, nell’unico modo possibile, perché lui non era destinato ad indossare altre maglie.
Tanti auguri Capitano.

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