22 novembre 1981,
Stadio Comunale (ancora non si chiamava Artemio Franchi, il quale peraltro era ancora
vivo e vegeto). Io c’ero. La Fiorentina quell’anno era stata costruita per
vincere. Alla nona giornata di campionato però non aveva ancora vinto un
granché. Aveva incassato anzi già due sconfitte, a Roma con i giallorossi di
Falcao e Pruzzo (e ci poteva stare) e a Cesena (e questa aveva scatenato i
primi malumori nella tifoseria).
A Firenze era dunque arrivato il
Genoa, che quell’anno era una neopromossa, dopo tre anni di calvario in serie
B. I rossoblu erano retrocessi alla fine del campionato 1977-78 proprio al
posto della Fiorentina, al termine di un drammatico spareggio conclusosi sullo
0-0 e deciso dalla rete dell’interista Scanziani che a sei minuti dalla fine
del campionato a San Siro aveva condannato il Foggia, spedendolo in serie
cadetta insieme ai genovesi, che avevano un punto in meno dei viola.
Quell’anno il divario tecnico era
troppo, ed il Genoa non era in grado di cercare vendette. Era la Fiorentina
semmai a dover cercare conferme. Nei suoi ranghi, c’era un giocatore in
particolare che aveva bisogno di mettersi in luce in quel momento, di smentire
quello che la stampa nordista – come sempre interessata
– scriveva su di lui, sulla sua scarsa tenuta fisica e sulla sua scarsa utilità
tecnico-tattica.
Giancarlo Antognoni era un
titolare fisso di quella Nazionale di Enzo Bearzot che aveva incantato il mondo
ai mondiali di Argentina, arrivando veramente ad un soffio da un titolo che
avrebbe strameritato. Era anche da diverse stagioni il capitano e la stella
indiscussa di una Fiorentina che non aveva saputo rinnovarsi dopo la
generazione ye ye del secondo
scudetto. Le nuove promesse viola si erano spente tutte, ad una ad una. Tutte
meno una, lui, la luce, l’unico 10, l’unica ragione per cui alla
fine degli anni settanta a Firenze si andava allo stadio.
Per diverse annate, oltre quella
drammatica del 1978 conclusasi come sopra detto, Antonio aveva retto da solo sulle proprie spalle il peso di una
squadra dalle tradizioni gloriose e di una intera città che non si rassegnava
al declino, meno che mai in ambito sportivo. Aveva giocato sempre, anche quando
le sue condizioni fisiche lo avrebbero sconsigliato (un po’ come più tardi
sarebbe successo ad un altro portacolori epico, Gabriel Omar Batistuta).
Tormentato a lungo da una
fastidiosa tarsalgia, il ragazzo che
giocava guardando le stelle era riuscito lo stesso a diffondere un po’
ovunque la sua luce rischiaratrice della notte altrimenti fonda viola. Ma in
Nazionale aveva diversi concorrenti, da Evaristo Beccalossi a Renato Zaccarelli
che erano sostenuti dai quotidiani di Milano e Torino, ai quali non pareva vero
di gettare la croce addosso ad un campione che in certi momenti giocava su una
gamba sola.
Fiorentina - Genoa veniva quindi dopo
un periodo incerto dei viola, come si è detto, e dopo un paio di sostituzioni subite
da Antonio in Nazionale. Il numero 10
quella domenica 22 novembre era una furia della natura. Voleva dimostrare una
volta per tutti che lui era l’interno di centrocampo più forte in Italia, uno
dei più forti del mondo e una stella assoluta di quella Nazionale che un anno
dopo sarebbe andata a vincere il titolo mondiale in Spagna.
Al gol iniziale di Daniel Bertoni
pareggiò il Genoa con Gorin. A inizio ripresa, Antonio trasformò senza problemi il rigore che riportò avanti la
Fiorentina. Ne aveva sbagliati tanti nel periodo buio della tarsalgia, ma ora
il suo piede funzionava perfettamente. E il suo piede di eguali al mondo ne
aveva pochi. L’unico 10 sentiva che
quella poteva essere la sua giornata, e si avventava su tutti i palloni in
cerca di altre prodezze. Al 12’
minuto un rilancio della difesa lo trovò avanti a tutti, al di là degli stessi
difensori genoani. Il fuoriclasse viola si fece mezzo campo in fuga, fino
all’area avversaria. Tra lui ed il secondo gol, il terzo della Fiorentina che
avrebbe chiuso il match, c’era ormai solo un ostacolo, il portiere.
Silvano Martina, portiere fino a
quel momento lontano dalle luci della ribalta, gli si lanciò contro
scoordinato, in preda al panico. Giancarlo vide la possibilità di metterlo
fuori causa con una finta, spostando il pallone di testa. Sulla sua testa
arrivò invece il ginocchio sollevato goffamente da Martina. L’impatto fu
tremendo, un intero stadio ammutolì all’istante, come se quella ginocchiata
avesse colpito ciascuno dei 45.000 presenti.
La scena che seguì, il minuto
scarso in cui Giancarlo Antognoni smise di respirare, il suo cuore si fermò e
fu tra la vita e la morte, a Firenze non potrà dimenticarla mai nessuno, di
quelli che c’erano e anche degli altri che l’hanno sentito raccontare o hanno
visto le immagini alla TV. Il genoano Onofri che, a due passi, si mette le mani
nei capelli, l’arbitro Casarin che raggelato chiama i soccorsi, il
massaggiatore della Fiorentina, il mitico Pallino
Raveggi ed il medico sociale del Genoa dott. Gatto che arrivano di corsa a
rianimare il corpo esanime del Capitano viola sono i fotogrammi indelebili di
quel drammatico film che nessuno qui vuol più rivedere.
Giancarlo riprese a respirare
grazie al loro intervento, la folla che riempiva lo stadio lo vide uscire in
barella senza sapere se era vivo o morto, e poté solo tributargli uno dei più
fragorosi applausi che si siano mai sentiti su un terreno di gioco. Il cuore di
Firenze ritornò a battere solo mezz’ora dopo, quando lo speaker del Comunale
annunciò finalmente (la partita si era conclusa con la vittoria 3-2 della Fiorentina,
ma la gente era ancora ferma al suo posto ad aspettare un altro risultato) che
Giancarlo Antognoni respirava regolarmente, si era svegliato ed era fuori
pericolo.
In realtà fuori pericolo ci andò realmente
qualche giorno dopo, e la notte che seguì a Firenze furono in pochi a dormire
tranquillamente. Il prof. Mennonna gli ricostruì la testa al C.T.O. e lo
restituì sano e salvo alla sua gente, che da quel momento dovette solo
preoccuparsi di come avrebbe fatto la squadra viola a proseguire un campionato
di vertice senza il suo faro, la sua stella più brillante, i suoi gol ed i suoi
assist.
Che infatti alla fine mancarono
dolorosamente ad una squadra che perse uno scudetto soltanto per un punto,
maturato come tutti sanno a vantaggio della Juventus nel confronto a distanza sui
campi di Cagliari e Catanzaro. Il 16 maggio 1982 arrivò un altro dolore, a
parere di molti evitabile se solo la sorte non avesse privato Firenze della sua
arma migliore nella lotta contro la Torino e l’Italia bianconera.
Il momento culminante di quel
lungo, favoloso, drammatico, maledetto campionato fu tuttavia il 21 marzo 1982.
Dopo un intero girone coincidente con il calvario del Capitano ferito, a
Firenze arrivò il Cesena, l’ultima squadra capace di battere i viola
quell’anno. A quell’epoca lo speaker subito prima dell’inno (che in quel
momento non era quello storico di Narciso Parigi) leggeva le formazioni delle
squadre. Quando fu il momento della Fiorentina, arrivato al numero nove ed al
nome di Ciccio Graziani, lo speaker ebbe un attimo di esitazione, quanto
bastava per fermare di nuovo il cuore ad uno stadio intero. E poi, quel nome,
scandito chiaramente e seccamente, come un grido di guerra liberatorio:
Antognoni.
L’urlo dello stadio comunale fu
una delle cose più emozionanti che sia dato di ricordare ad un tifoso viola.
Antonio fece il suo rientro in campo con i capelli corti, come non l’aveva mai
visto nessuno e nessuno l’avrebbe mai più visto in seguito, e la fascia di
capitano al suo braccio. Girandosi verso la Fiesole, gli si parò davanti lo
striscione che vi campeggiava quel giorno: “FORZA ANTONIO, L’INFERNO E’ FINITO,
IL PARADISO TI ATTENDE”.
Non era destinato al paradiso
quell’anno Giancarlo Antognoni. Non in viola, dove il suo gol segnato con la
testa rattoppata che sbancò Napoli qualche domenica dopo risultò inutile,
vanificato dal rigore di Liam Brady a Catanzaro. Né tutto sommato in Nazionale,
dove fu costretto per infortunio a saltare la finale del Santiago Bernabeu e ad
assistere a bordo campo al trionfo di una squadra a cui aveva dato un
contributo decisivo nella conquista della Coppa del Mondo.
Come dice Erodoto nelle sue
Storie, “presso gli antichi Greci vi era la credenza che le doti particolari di
un essere umano, quali l’eleganza, l’abilità nella danza o nell’arte della
guerra, suscitassero l’invidia degli Dei, la cui collera colpiva senza pietà
colui che essi ritenevano troppo fortunato”.
Firenze aveva e ha continuato a
perdere scudetti, Coppe e quant’altro. Ma da quarant’anni ha Giancarlo
Antognoni, e se lo fa bastare, orgogliosa. A lui ha legato il suo destino, e
lui ha legato il proprio a quello di Firenze. Che rischiò di perderlo soltanto in
un pomeriggio del novembre 1981, nell’unico modo possibile, perché lui non era
destinato ad indossare altre maglie.
Tanti auguri Capitano.
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