Un bambino sviluppa i primi
ricordi duraturi intorno ai cinque-sei anni. E infatti, se ci penso bene, nel
primo ricordo che ho della mia infanzia ero allo stadio, con mio padre.
Fiorentina-Roma, finì 2-2, seppi dopo dai
discorsi del babbo che avevo assistito
a una delle più belle partite mai giocate da quella che, senza possibilità di
dubbio, era la mia squadra del cuore. Ero nato, ero stato battezzato, ero stato
registrato all'anagrafe, e mi ero ritrovato arruolato in forza all'esercito
viola. Non era ammessa discussione, non a Firenze, né allora né poi.
Due anni dopo, ricordi un po' più
nitidi, comunque indelebili. Ero un bambino di otto anni, tenevo per mano il babbo
alle Cascine, nell'altra mano lui aveva la radiolina che trasmetteva Tutto
il calcio minuto per minuto. L'11 maggio 1969 si giocava la penultima
giornata di campionato. La Fiorentina era in testa, giocava a Torino contro la
Juventus. Quando la voce del cronista scandì "la Fiorentina è campione
d'Italia", la radio volò via dalla mano di mio padre, il parco e tutta
Firenze diventarono una festa di gente che rideva e festeggiava felice, come
tanti bambini. Io, che bambino lo ero davvero, ebbi la vita segnata per sempre,
come la Cresima dopo il Battesimo. La conferma consapevole del mio destino. Quel
giorno mi fu consegnata una bandierina viola (che rimase appesa al balcone di
casa mia per un anno intero). Ancora non sapevo, ma l'avrei capito presto, che
la squadra sconfitta quel giorno sarebbe stata l'avversario da combattere nel
resto della vita, per tornare un giorno a sentire di nuovo quella voce che
annunciava la più grande delle vittorie.
Il tempo è volato via. Ero un
adolescente quando Desolati mise a sedere Dino Zoff e depositò nella porta vuota
il gol della vittoria contro una Juventus che era diventata fortissima, forse
la più forte di sempre. Noi non lo eravamo più, ma contro i bianconeri tiravamo
sempre fuori anche quello che non avevamo. "Per esser di Firenze vanto e
gloria", questo chiedeva la città quando scendeva da queste parti la squadra
che ancora nessuno odiava ma che tutti già allora detestavano.
Ero ancora un po' più adolescente
quando la Juventus venne a cercare il punto del matematico scudetto alla penultima
giornata, era il 1975. Prese quattro gol, Antognoni, Casarsa, Caso e un'autorete
di Zoff rimandarono la festa dei gobbi e inorgoglirono una città che credeva di
aver trovato una nuova generazione ye-ye, e che invece avrebbe poi perso quasi
tutti i suoi pezzi migliori tra infortuni e vicende avverse.
Ero appena maggiorenne quando
Alessio Tendi tirò una di quelle fiammate dalla tre-quarti che Zoff
sentì solo lo schiocco della palla sul palo e poi in rete. Poco prima aveva
"sforbiciato" Sacchetti, la rete di "penna bianca" Bettega
alla fine fu inutile, la befana del 1980 fu un'altra festa viola. Il peggio era
passato, Agnelli aveva tentato di prendersi Antognoni, Ugolini aveva resistito,
Pontello era alle porte e la Juventus da queste parti a passeggiare non ci veniva
più (se mai c'era venuta).
Ero un uomo fatto quando Pontello
dette l'assalto al potere bianconero. Mancò la fortuna, non il valore.
Antognoni si fece male due volte, dopo il mancato spareggio del 1982 (in
cui l'arbitro Mattei si sostituì al portiere del Cagliari) riuscì a giocare
solo un'ultima splendida partita contro Platini & C., segnando addirittura
di testa. Finì 3-3 e fu la più bella partita contro la Juve (e forse in
assoluto) che io ricordi. Bertoni giocò come non aveva mai fatto, fulminando
Tacconi due volte. Toccò al povero Contratto segnare l'autorete che rese
imperfetta quella gara memorabile.
Quando Daniel Passarella portò la
Fiorentina a trionfare sul campo dei gobbi per la prima volta dall'ultimo scudetto,
ero in partenza per il servizio militare e me la godetti poco. L'anno dopo,
quando il Caudillo firmò un'altra vittoria casalinga insieme a Berti (che
ancora non faceva panini) non avevo ancora finito. Mi persi così l'addio di
Antognoni e i primi calci di Roberto Baggio. La fine del mio servizio in
compenso coincise con la fine dei sogni di gloria dei Pontello, che lasciarono
andar via Passarella, Giovanni Galli ed altri. Trovarono comunque Dunga, che
con Baggino, Diaz e poi il povero Stefano Borgonovo misero su alcune rappresentazioni
niente male. Vittime predestinate proprio i bianconeri, che a loro volta
avevano i loro problemi a sostituire la generazione dei campioni del mondo di
Spagna.
Nel 1988 Baggio firmò un altro
successo in quel di Torino, senza ancora lontanamente immaginarsi che quello che
stavano costruendo a due passi dal Comunale nel capoluogo piemontese sarebbe
diventato il suo stadio, il Delle Alpi, dove la Fiorentina era destinata peraltro
a non raccattare più niente. Ma prima di questo il destino riservava ai viola
targati Pontello un'ultima apoteosi. Lavoravo da poco quando Baggio andò a battere
quel calcio d'angolo al 90°. In piena area juventina aspettava il cross
Borgonovo, che non tradì le attese. Un'altra vittoria memorabile, poi il
crollo.
Un anno dopo, la Juve ci malmenò
nella finale di andata della Coppa UEFA a Torino, complice un arbitraggio
casalingo e un Baggio che forse sapeva già di essere oggetto di trattativa con
i nostri avversari. Al ritorno, una Fiorentina avvilita andò a giocare “in casa” ad Avellino. Come per
gli israeliani giocare a Gaza, o per i palestinesi giocare a Tel Aviv. Addio
Coppa e addio Baggio, venduto tra le due finali ma ufficializzato solo al
ritorno dall'Irpinia. A Piazza Savonarola l'aria fumò per diverso tempo a causa
dei lacrimogeni lanciati dalla polizia per sedare la furibonda rivolta del
popolo viola. Pontello vendette a Cecchi Gori, la Nazionale perse Firenze per
diverse generazioni a venire. Per la Juventus non c'era altro che odio in città
dal 1982. Dopo il 1990 quell'odio diventò mortale.
Ero dentro la coreografia della
Curva Fiesole trasformata nel panorama di Firenze nel 1991, quando Baggio rifiutò
di tirarci contro il rigore e Mareggini lo parò a De Agostini. Aveva segnato
Fuser, vendetta tremenda vendetta, Baggio raccolse addirittura una sciarpa
viola e, pur vestito di bianconero, se la portò al cuore uscendo dal campo.
L'anno dopo un nuovo supereroe
arrivò a sconfiggere l'armata delle tenebre. Cominciò l'epopea di
Gabriel Batistuta, 92, 93, 97, 98, quante ne buscarono i gobbi, il Re Leone non
perdonava e ci volle il suo infortunio per fermare l'ultima corsa viola verso lo
scudetto, l'anno dell'ultima vittoria in casa prima di Pepito. Nel frattempo
era nato mio figlio, un altro bambino a cui mettere in mano la bandierina
viola, a cui far succhiare latte viola, a cui passare il testimone dell'attesa
di un nuovo trionfo, se non sarà dato di vederlo a me.
Lunghi anni trascorsi nella
risalita dall'abisso e nella ricostruzione di una Fiorentina vincente. Con una
sola gioia. A Torino nel 2008 Daniel Osvaldo sulle note di Rita Pavone sbancò
il Delle Alpi, dove non avevamo ancora fatto un punto in 18 anni. Poi
Gilardino, Pazzini, Luca Toni e altri assalti senza fortuna, vittorie che diventavano
pareggi negli ultimi minuti o sconfitte deprimenti che a volte diventavano raccapriccianti,
come quella del 2012 a cui nessuno vuole più ripensare (e forse finalmente dopo
le fucilate di Giuseppe Rossi e Joaquin Sanchez Rodriguez ci riusciremo).
Pepito non lo sa, ma c'era molto
di più della sua rabbia personale nella forza con cui ha calciato in porta – sospinto
da uno stadio intero – quella domenica pomeriggio in cui ha battuto per tre
volte il povero Buffon. C'era tutta la rabbia di 40 anni miei e di tutta una generazione
che ha visto il suo sogno invecchiare di pari passo con la propria età. Quel
bambino del 1969 sente che di tempo davanti a sé per rivedere di nuovo lo
scudetto accanto al giglio sulle maglie viola ne ha sempre meno, il più ormai è
alle spalle. Il bambino del 1993 nel frattempo è diventato un uomo e aspetta la
sua prima vittoria senza neanche sapere come può essere fatta. La sera del 4-2 era ancora più incredulo di me.
Un lungo, sofferente e dolcissimo
sogno viola, può condividerlo e capirlo soltanto chi è nato qui o comunque ha
adottato questa città ed il suo labaro. Titoli di coda che (per ora) scorrono
sulle immagini di Giuseppe Rossi, Borja Valero, Cuadrado, Joaquin, Neto, Della
Valle grande e Della Valle piccolo e la bolgia del Franchi in delirio, tutti
che abbracciano tutti. Con la voce fuori campo di Sean Connery – Mohamed El Raisuli
che nelle scene finali de Il Vento e il Leone di John Milius tenta di spiegare
al Presidente americano Theodore Roosevelt che cos'è l'appartenenza. E come
tanti tifosi della Juve che storcono la bocca indignati e disgustati dal
disprezzo viola, il Presidente fatalmente non può capire.
"Tu sei il Vento e io sono il Leone. Io, come il leone, so bene qual è il mio posto. Tu, come il Vento, non sai mai qual è il tuo".
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