Era nato a Prato nel 1910. All’inizio degli anni ’50, quando Prato stava
diventando una delle capitali industriali italiane, e nel settore
tessile una delle capitali mondiali, era uno degli imprenditori più
prestigiosi e facoltosi. Enrico Befani era un grande organizzatore, con
idee moderne, e con una grande passione, oltre al suo lavoro: il calcio.
Enrico Befani con il Marchese Ridolfi |
A due passi da casa sua, a Firenze, la squadra viola, dai tempi eroici
del Marchese Ridolfi al dopoguerra, aveva cominciato a farsi un nome,
attraverso prestazioni dignitose e campionati a volte anche conclusi in
posizioni prestigiose, mai però sopra il quinto posto. In un calcio
ancora artigianale e dilettantistico, finita l’epopea del Grande Torino,
solo gli squadroni del nord avevano una struttura societaria che si
elevava al di sopra del pressappochismo. La Fiorentina di quegli anni
giocava benino, segnava poco, e aveva un rendimento altalenante. La
società cercava di investire, ma spesso senza idee chiare. I tifosi in
compenso cominciavano a sognare un futuro più roseo, come Firenze
meritava.
Le idee chiare non mancavano a Befani, che nel 1952 rilevò la società
viola da Carlo Antonini. Il neo-presdente si intendeva di calcio, oltre
che di organizzazione societaria. Non era ancora arrivato in sede che
già aveva acquistato due pezzi pregiati come il mediano Segato e l’ala
Prini, oltre ad altri giocatori promettenti. Nel suo primo campionato,
1952-53, la squadra partì malissimo. A metà campionato si ritrovò in
piena lotta per la retrocessione. Befani decise di esonerare
l’allenatore Renzo Magli, e siccome a volte la fortuna aiuta gli audaci,
la sua scelta cadde su quanto di meglio c’era allora: Fulvio
Bernardini.
Un imprenditore, la storia lo ha spesso dimostrato, è grande non solo
per le proprie qualità, ma anche per quelle dei collaboratori che si sa
scegliere. Fulvio Bernardini era stato un gran giocatore, e come
raramente succede, si apprestava a diventare un grandissimo allenatore.
Esplose qui a Firenze, ed esplose grazie a Befani che gli dette fiducia e
lo assecondò. Bernardini era un teorico del Sistema, o WM, il modulo
che andava per la maggiore allora. Ma soprattutto era un teorico del
principio che per giocare a calcio, qualunque sia il modulo, essenziali
sono i piedi buoni. E Befani gliene mise a disposizione in quantità. Con
le sue risorse economiche non indifferenti, e con la capacità di
spenderle al meglio, nel giro di due anni portò a Firenze Sarti,
Virgili, Gratton, Bizzarri, Orzan, e soprattutto il miglior brasiliano
ed il miglior argentino che si poteva acquistare in quel momento:
Julinho e Montuori.
La Fiorentina del 1955-56 volò verso il primo scudetto della storia
societaria senza trovare avversari. Alla fine i punti di vantaggio sul
Milan arrivato secondo furono dodici, e solo il Genoa agli ultimi minuti
dell’ultima partita riuscì a battere lo squadrone viola. Negli anni
successivi, le potenze del nord si riorganizzarono e – con qualche
aiutino, di cui a Firenze ci si lamentò soprattutto nel 1958 – tornarono
a primeggiare. Seconda, per quattro anni consecutivi, la Fiorentina di
Befani, e qualcosa voleva pur dire. In Nazionale, il blocco della
Fiorentina dettava legge in quegli anni. Nel 1957 soltanto un Real
Madrid anch’esso non certo mal visto – diciamo così - dalla Federazione
riuscì a battere in Coppa dei Campioni la Fiorentina.
Befani era un talent scout. Nel 1958 Julinho rientrò in Brasile, colpito dalla saudade.
E il presidente andò a scovare per sostituirlo un ragazzino svedese che
aveva giocato nella sua nazionale sconfitta solo dal Brasile ai
mondiali casalinghi appena disputati, un’ala all’apparenza fragile, come
un uccellino, disse qualcuno: Kurt Hamrin. Il gioiello più prezioso che
lasciò in eredità al suo successore, Enrico Longinotti, quando alla
fine del 1961 decise di lasciare, non prima comunque di aver vinto il
primo trofeo internazionale non solo della Fiorentina, ma anche di una
squadra italiana in assoluto, la Coppa delle Coppe.
Una delle caratteristiche del presidentissimo viola era quella di
operare continuamente riassetti societari (finalizzati a
ricapitalizzazioni), che a volte però andavano a scontrarsi con un
ambiente fiorentino come sempre scorbutico e a volte un po’ invidioso di
chi aveva successo, per di più venendo da fuori. A cinque anni dallo
scudetto, Befani ritentò la sorte proponendo riforme allo statuto e alla
struttura societari al fine di aprire un nuovo ciclo vincente. Le
riforme gli furono bocciate dal consiglio d’amministrazione, e lui
decise di mollare, sbattendo la porta. Il suo ultimo commento da
presidente viola, dicono, fu: “ciò che oggi avete negato, un giorno
sarete costretti ad accettarlo senza discussioni e senza che vi possiate
opporre”. Frase quanto mai sibillina.
Enrico Befani morì a Prato nel 1968, a pochi mesi di distanza da
un’impresa che ripeteva la sua del 1956: il secondo scudetto viola di
Nello Baglini.
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