venerdì 1 gennaio 2016

Sinisa Mihajlovic, la Tigre alla riscossa

Sandro Mencucci, allora amministratore delegato dell’A.C.F. Fiorentina, me lo disse chiaramente, senza mezzi termini. “Abbiamo preso un vincente”. Era il giugno 2010, la lunga telenovela dell’addio a Cesare Prandelli si era appena conclusa con l’approdo del tecnico di Orzinovi sulla panchina della Nazionale. Firenze era in subbuglio, dopo una stagione altalenante tra gli ottavi di Champion’s (ed il furto del Bayern di Monaco perpetrato sotto gli occhi dell’UEFA), diciassette sconfitte in campionato e diversi mesi di diatriba pubblica tra il patron Diego Della Valle e appunto Prandelli.
Alla fine il mister aveva seguito il consiglio della dirigenza viola “cercandosi un’altra squadra”, anche se la più inattesa e ambiziosa. Sembrò tuttavia che anche la Fiorentina volesse continuare sulla strada delle proprie ambizioni. Quelle che avevano portato alla disputa di due Champion’s League consecutive (e avrebbero potuto essere quattro) e a veleggiare costantemente nelle zone alte della classifica italiana. Per continuare, per inseguire quei sogni di vittoria “entro il 2011” promessi a suo tempo dalla proprietà, la società non trovò di meglio che questo personaggio emergente, a suo modo carismatico, dalla storia assai più avventurosa di quella che di solito si porta dietro un calciatore prima ed un tecnico poi, che veniva da un paese a noi così vicino eppure così lontano.
La storia di Sinisa Mihajlovic a Firenze è una storia di fallimento, archiviata senza remissioni e senza alcun lascito di simpatia. Lungi dal vincere, e dal convincere, il mister serbo finì per pagare a caro prezzo non soltanto le colpe proprie, ma anche quelle di una società che non aveva capito che un ciclo era finito. Che gli uomini che erano stati di Prandelli avevano fatto il loro tempo in viola, non tanto perché “bolliti” da una serie di stagioni belle ma estenuanti e dalla delusione finale di Monaco di Baviera, quanto perché avendo dato a Cesare tutto quanto era di Cesare ed anche di più era poi difficile immedesimarsi con Sinisa, come con chiunque altro.
Il carattere del serbo non aiutava. Mihajlovic non è uno che si accattiva né i tifosi, né i dirigenti né gli addetti ai lavori. Non punta sulla simpatia personale (anche se non né è affatto sprovvisto, quando vuole) quanto sulla propria personalità, che lui sa essere almeno una spanna sopra quella di tanti altri in quanto a carisma e carattere. Spigoloso quanto si vuole, ma altrettanto forte.
Non aiutava neanche la sua storia. Che poi è la storia della ex Jugoslavia, del dramma che ha sconvolto la penisola balcanica nei vent’anni successivi alla morte di Josip Broz detto Tito, il dittatore comunista che – con le buone o con le cattive – era riuscito a far convivere le etnie più diverse (e più ostili) per la prima e unica volta nella storia di quella parte di mondo. Un’impresa che si era dissolta nel nulla un attimo dopo la sua scomparsa, proprio perché gli odi, le incomprensioni e le violenze represse andavano ben al di là e rimontavano molto più indietro della vittoria nella lotta di liberazione durante la seconda guerra mondiale.
Quando la pentola di Slobodan Milosevic, il successore di Tito, esplose permettendo agli ex fratelli jugoslavi di saltarsi alla gola l’un con l’altro, Sinisa Mihajlovic aveva appena raggiunto la maggiore età, ed era una promessa del calcio del suo paese. Nato a Vukovar, allora una enclave serba nel territorio di quella che poi è diventata la Croazia, cominciò la sua carriera a Novi Sad nel Voivodjna, per poi approdare subito al club più prestigioso della Jugoslavia, la Stella Rossa di Belgrado.
Era l’anno in cui la Crvena Zvezda vinse la Coppa dei Campioni, battendo ai rigori in finale l’Olympique Marsiglia dopo che i francesi avevano eliminato il Milan di Sacchi nella celebre partita del black out elettrico e del ritiro della squadra da parte di Galliani. Uno dei rigori decisivi fu proprio Mihajlovic a batterlo. Il ragazzo, che allora giocava centrocampista offensivo centrale o esterno, si era già messo in luce come uno dei migliori tiratori di calci da fermo. Un giorno qualcuno l’avrebbe definito, con termine burocratico quanto efficace, il “responsabile delle palle inattive”. Quel qualcuno era nientemeno che Sven Goran Eriksson, l’allenatore di una Sampdoria che cercava di rinverdire i fasti del recente scudetto.
A Genova Sinisa c’era arrivato via Roma. Con Carletto Mazzone e Vujadin Boskov era diventato un centrocampista difensivo, con Eriksson un centrale di difesa. Alcuni tra i migliori allenatori dell’epoca favorirono dunque la sua maturazione calcistica. Mentre nel suo paese d’origine purtroppo maturava ed esplodeva la guerra civile più sanguinosa dei tempi moderni, proprio nel cuore della “civile” Europa.
Mihajlovic ha raccontato quegli anni e tutti quelli che ha vissuto nel suo paese e per il suo paese. Si è sempre definito un nostalgico di Tito, più che del comunismo. “Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti (…) Slavi, cattolici, ortodossi, musulmani: solo il Generale è riuscito a tenere tutti insieme. Ero piccolo quando c’era lui, ma una cosa ricordo: del blocco dei paesi dell’Est la Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Quando è morto la gente è andata per mesi sulla sua tomba. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del mondo”.
Quel mondo andò in pezzi, non soltanto per lui ma per tutto un popolo che fino ad allora aveva creduto di poter essere orgoglioso della strada fatta insieme e delle conquiste conseguite, nel 1991. L’anno che la Stella Rossa vinceva in Europa, uno degli ultimi successi sportivi della Jugoslavia insieme al titolo europeo nel basket vinto a Roma in finale sull’Italia, la disprezzata, odiata e invidiata rivale di sempre, sui campi di battaglia e di gioco. L’anno in cui il giovane Sinisa chiese alla propria federazione di sospendere il campionato. “I nostri tifosi sono al fronte… Il mio popolo perisce e versa il suo sangue e io come faccio a giocare. Mi sono persino trovato a pensare che è sconveniente continuare a giocare e magari a fare festa in mezzo a tante vittime”.
Sbarcato a Roma, separato dalla famiglia in pericolo a causa della feroce rappresaglia croata contro la pulizia etnica serba, Mihajlovic trovò conforto e amicizia nella figura di Zeliko Raznatovic soprannominato Arkan, la tigre. L’uomo che radunò attorno a sé le milizie volontarie serbe come prima di lui solo Tito aveva saputo fare e dette il via alla riscossa della sua etnia dopo il sopravvento croato. Quando morì assassinato nel 2000, Sinisa era in forza alla Lazio, con la quale aveva vinto l’ultima storica edizione della Coppa delle Coppe e si apprestava a vincere lo scudetto del centenario. I tifosi biancocelesti esposero in Curva Nord il famigerato striscione “Onore alla Tigre Arkan”. Non si è mai saputo con certezza se fu Mihajlovic a commissionarlo in qualche modo. Di sicuro il campione serbo non ebbe problemi a commentare i suoi rapporti con il miliziano (criminale di guerra conclamato) che gli aveva salvato la famiglia: “gli amici non li rinnego, né li tradisco”.
Non era un uomo facile il mister che arrivò in una Firenze già agitatissima per conto suo nell’estate del 2010. Non glielo permettevano né il suo carattere né la sua storia. Una tifoseria estenuata dalla lunga querelle Della valle – Prandelli si aspettava di riprendere subito i propri sogni di gloria. Mihajlovic veniva da un bel campionato disputato sulla panchina del Catania, preceduto da una controversa stagione a Bologna. Si era fatto fama di tecnico che sferzava i giocatori, tirandone fuori gli “attributi”. Non sapeva che gli orfani di Prandelli erano giocatori che di attributi non ne avevano più.
Il campionato 2010-2011 è stato archiviato nell’Almanacco viola come uno dei più noiosi della storia. Perfino la tradizionale partita dell’anno contro la Juve fu un match soporifero, inguardabile. La luna di miele tra tecnico e tifosi finì prestissimo e a Sinisa non fu perdonato più niente. Nessunò gli fece sconti, ricordandosi che Mutu e Jovetic li aveva persi ancor prima di cominciare e che la luce di Gilardino aveva già iniziato a spegnersi, insieme a quella di Montolivo e di altri “senatori”.
Il nono posto finale poteva essere anche peggiore, viste le premesse. Nessuno dette segno di accontentarsi. La gente che aveva sopportato il giubbotto di Cesare Prandelli non riuscì a fare altrettanto con la sciarpa di Sinisa Mihajlovic. Che nella stagione successiva, la quale prometteva di ripetere nella migliore delle ipotesi in fotocopia quella appena trascorsa, fu sostituito a furor di popolo appena ai primi di novembre. E pazienza se il popolo poi ebbe di che pentirsi abbondantemente con il boxeur Delio Rossi. Che dimostrò involontariamente che non tutte le colpe di quella Fiorentina (che si salvò dalla B alla penultima giornata dopo gli schiaffi a Llajic) venivano da Vukovar.
Il destino gioca scherzi strani. Mihajlovic ritrovò Adem Llajic in nazionale serba, sulla cui panchina si era seduto nel 2012. E non gli piacque affatto – a lui nazionalista fin nel midollo – che il serbo-bosniaco di fede musulmana non cantasse l’inno della sua nazionale. Anche se gestì la cosa in modo assai più signorile di altri (così come da signore se n’era andato da Firenze, senza sbattere alcuna porta e senza intemperanze), limitandosi a non convocare più il talento di Novi Pazar. Poco dopo, peraltro, fu la federazione serba a non convocare più lui.
Tornato in Italia sulla panchina della Sampdoria, poco dopo incrociò la Fiorentina del suo successore (ed ex compagno di squadra doriano, nonché amico) Vincenzo Montella, battendola sonoramente a Marassi. Alla domanda stucchevole del giornalista di turno, “che cosa invidia a Montella, signor Mihajlovic?”, Sinisa fu pronto a rispondere – con quel suo sorriso caratteristico tra il beffardo e lo sprezzante – “I giocatori che gli hanno comprato”.
Questo è l’uomo che ritrova domenica la Fiorentina a San Siro. Un uomo che per lungo tempo, è presumibile, coltiverà nel proprio animo desideri e propositi di rivalsa, se non di vendetta (sportiva), verso la piazza che gli ha dimostrato così tanto malanimo nei sedici mesi trascorsi sulla panchina viola. Non sapremo mai se in altre condizioni la sua avventura in riva all’Arno avrebbe potuto funzionare diversamente. Se avrebbe potuto essere ricordato – a parità o quasi di carattere e di tecnica – come un Passarella invece che come un inguardabile individuo, a prescindere dalla sciarpa.
Non sapremo mai se la società aveva preso davvero un vincente e non seppe dargli le truppe per vincere. Ce ne rimarrà per sempre il dubbio. E allora, nel dubbio, onore alla Tigre Sinisa.

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