Sandro Mencucci, allora
amministratore delegato dell’A.C.F. Fiorentina, me lo disse chiaramente, senza
mezzi termini. “Abbiamo preso un vincente”. Era il giugno 2010, la lunga
telenovela dell’addio a Cesare Prandelli si era appena conclusa con l’approdo del
tecnico di Orzinovi sulla panchina della Nazionale. Firenze era in subbuglio,
dopo una stagione altalenante tra gli ottavi di Champion’s (ed il furto del
Bayern di Monaco perpetrato sotto gli occhi dell’UEFA), diciassette sconfitte
in campionato e diversi mesi di diatriba pubblica tra il patron Diego Della
Valle e appunto Prandelli.
Alla fine il mister aveva seguito
il consiglio della dirigenza viola “cercandosi un’altra squadra”, anche se la
più inattesa e ambiziosa. Sembrò tuttavia che anche la Fiorentina volesse
continuare sulla strada delle proprie ambizioni. Quelle che avevano portato
alla disputa di due Champion’s League consecutive (e avrebbero potuto essere
quattro) e a veleggiare costantemente nelle zone alte della classifica
italiana. Per continuare, per inseguire quei sogni di vittoria “entro il 2011” promessi a suo tempo
dalla proprietà, la società non trovò di meglio che questo personaggio
emergente, a suo modo carismatico, dalla storia assai più avventurosa di quella
che di solito si porta dietro un calciatore prima ed un tecnico poi, che veniva
da un paese a noi così vicino eppure così lontano.
La storia di Sinisa Mihajlovic a
Firenze è una storia di fallimento, archiviata senza remissioni e senza alcun
lascito di simpatia. Lungi dal vincere, e dal convincere, il mister serbo finì
per pagare a caro prezzo non soltanto le colpe proprie, ma anche quelle di una
società che non aveva capito che un ciclo era finito. Che gli uomini che erano
stati di Prandelli avevano fatto il loro tempo in viola, non tanto perché
“bolliti” da una serie di stagioni belle ma estenuanti e dalla delusione finale
di Monaco di Baviera, quanto perché avendo dato a Cesare tutto quanto era di
Cesare ed anche di più era poi difficile immedesimarsi con Sinisa, come con
chiunque altro.
Il carattere del serbo non
aiutava. Mihajlovic non è uno che si accattiva né i tifosi, né i dirigenti né
gli addetti ai lavori. Non punta sulla simpatia personale (anche se non né è
affatto sprovvisto, quando vuole) quanto sulla propria personalità, che lui sa
essere almeno una spanna sopra quella di tanti altri in quanto a carisma e
carattere. Spigoloso quanto si vuole, ma altrettanto forte.
Non aiutava neanche la sua
storia. Che poi è la storia della ex Jugoslavia, del dramma che ha sconvolto la
penisola balcanica nei vent’anni successivi alla morte di Josip Broz detto
Tito, il dittatore comunista che – con le buone o con le cattive – era riuscito
a far convivere le etnie più diverse (e più ostili) per la prima e unica volta
nella storia di quella parte di mondo. Un’impresa che si era dissolta nel nulla
un attimo dopo la sua scomparsa, proprio perché gli odi, le incomprensioni e le
violenze represse andavano ben al di là e rimontavano molto più indietro della
vittoria nella lotta di liberazione durante la seconda guerra mondiale.
Quando la pentola di Slobodan
Milosevic, il successore di Tito, esplose permettendo agli ex fratelli
jugoslavi di saltarsi alla gola l’un con l’altro, Sinisa Mihajlovic aveva
appena raggiunto la maggiore età, ed era una promessa del calcio del suo paese.
Nato a Vukovar, allora una enclave serba nel territorio di quella che poi è
diventata la Croazia, cominciò la sua carriera a Novi Sad nel Voivodjna, per
poi approdare subito al club più prestigioso della Jugoslavia, la Stella Rossa
di Belgrado.
Era
l’anno in cui la Crvena Zvezda vinse
la Coppa dei Campioni, battendo ai rigori in finale l’Olympique Marsiglia dopo
che i francesi avevano eliminato il Milan di Sacchi nella celebre partita del
black out elettrico e del ritiro della squadra da parte di Galliani. Uno dei
rigori decisivi fu proprio Mihajlovic a batterlo. Il ragazzo, che allora
giocava centrocampista offensivo centrale o esterno, si era già messo in luce
come uno dei migliori tiratori di calci da fermo. Un giorno qualcuno l’avrebbe
definito, con termine burocratico quanto efficace, il “responsabile delle palle
inattive”. Quel qualcuno era nientemeno che Sven Goran Eriksson, l’allenatore
di una Sampdoria che cercava di rinverdire i fasti del recente scudetto.
A Genova
Sinisa c’era arrivato via Roma. Con Carletto Mazzone e Vujadin Boskov era
diventato un centrocampista difensivo, con Eriksson un centrale di difesa.
Alcuni tra i migliori allenatori dell’epoca favorirono dunque la sua
maturazione calcistica. Mentre nel suo paese d’origine purtroppo maturava ed
esplodeva la guerra civile più sanguinosa dei tempi moderni, proprio nel cuore
della “civile” Europa.
Mihajlovic
ha raccontato quegli anni e tutti quelli che ha vissuto nel suo paese e per il
suo paese. Si è sempre definito un nostalgico di Tito, più che del comunismo. “Ho
vissuto con Tito, sono più comunista di tanti (…) Slavi, cattolici, ortodossi,
musulmani: solo il Generale è riuscito a tenere tutti insieme. Ero piccolo
quando c’era lui, ma una cosa ricordo: del blocco dei paesi dell’Est la
Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava
niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano
valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Quando è morto la gente è andata
per mesi sulla sua tomba. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del
mondo”.
Quel
mondo andò in pezzi, non soltanto per lui ma per tutto un popolo che fino ad
allora aveva creduto di poter essere orgoglioso della strada fatta insieme e
delle conquiste conseguite, nel 1991. L’anno che la Stella Rossa vinceva in
Europa, uno degli ultimi successi sportivi della Jugoslavia insieme al titolo
europeo nel basket vinto a Roma in finale sull’Italia, la disprezzata, odiata e
invidiata rivale di sempre, sui campi di battaglia e di gioco. L’anno in cui il
giovane Sinisa chiese alla propria federazione di sospendere il campionato. “I
nostri tifosi sono al fronte… Il mio popolo perisce e versa il suo sangue e io
come faccio a giocare. Mi sono persino trovato a pensare che è sconveniente
continuare a giocare e magari a fare festa in mezzo a tante vittime”.
Sbarcato
a Roma, separato dalla famiglia in pericolo a causa della feroce rappresaglia
croata contro la pulizia etnica serba, Mihajlovic trovò conforto e amicizia nella
figura di Zeliko Raznatovic soprannominato Arkan, la tigre. L’uomo che radunò
attorno a sé le milizie volontarie serbe come prima di lui solo Tito aveva
saputo fare e dette il via alla riscossa della sua etnia dopo il sopravvento
croato. Quando morì assassinato nel 2000, Sinisa era in forza alla Lazio, con
la quale aveva vinto l’ultima storica edizione della Coppa delle Coppe e si
apprestava a vincere lo scudetto del centenario. I tifosi biancocelesti
esposero in Curva Nord il famigerato striscione “Onore alla Tigre Arkan”. Non
si è mai saputo con certezza se fu Mihajlovic a commissionarlo in qualche modo.
Di sicuro il campione serbo non ebbe problemi a commentare i suoi rapporti con
il miliziano (criminale di guerra conclamato) che gli aveva salvato la
famiglia: “gli amici non li rinnego, né li tradisco”.
Non era
un uomo facile il mister che arrivò in una Firenze già agitatissima per conto
suo nell’estate del 2010. Non glielo permettevano né il suo carattere né la sua
storia. Una tifoseria estenuata dalla lunga querelle Della valle – Prandelli si
aspettava di riprendere subito i propri sogni di gloria. Mihajlovic veniva da
un bel campionato disputato sulla panchina del Catania, preceduto da una
controversa stagione a Bologna. Si era fatto fama di tecnico che sferzava i
giocatori, tirandone fuori gli “attributi”. Non sapeva che gli orfani di Prandelli
erano giocatori che di attributi non ne avevano più.
Il
campionato 2010-2011 è stato archiviato nell’Almanacco viola come uno dei più
noiosi della storia. Perfino la tradizionale partita dell’anno contro la Juve
fu un match soporifero, inguardabile. La luna di miele tra tecnico e tifosi
finì prestissimo e a Sinisa non fu perdonato più niente. Nessunò gli fece
sconti, ricordandosi che Mutu e Jovetic li aveva persi ancor prima di
cominciare e che la luce di Gilardino aveva già iniziato a spegnersi, insieme a
quella di Montolivo e di altri “senatori”.
Il nono
posto finale poteva essere anche peggiore, viste le premesse. Nessuno dette
segno di accontentarsi. La gente che aveva sopportato il giubbotto di Cesare
Prandelli non riuscì a fare altrettanto con la sciarpa di Sinisa Mihajlovic.
Che nella stagione successiva, la quale prometteva di ripetere nella migliore
delle ipotesi in fotocopia quella appena trascorsa, fu sostituito a furor di
popolo appena ai primi di novembre. E pazienza se il popolo poi ebbe di che
pentirsi abbondantemente con il boxeur Delio Rossi. Che dimostrò
involontariamente che non tutte le colpe di quella Fiorentina (che si salvò dalla
B alla penultima giornata dopo gli schiaffi a Llajic) venivano da Vukovar.
Il
destino gioca scherzi strani. Mihajlovic ritrovò Adem Llajic in nazionale
serba, sulla cui panchina si era seduto nel 2012. E non gli piacque affatto – a
lui nazionalista fin nel midollo – che il serbo-bosniaco di fede musulmana non
cantasse l’inno della sua nazionale. Anche se gestì la cosa in modo assai più
signorile di altri (così come da signore se n’era andato da Firenze, senza
sbattere alcuna porta e senza intemperanze), limitandosi a non convocare più il
talento di Novi Pazar. Poco dopo, peraltro, fu la federazione serba a non
convocare più lui.
Tornato
in Italia sulla panchina della Sampdoria, poco dopo incrociò la Fiorentina del
suo successore (ed ex compagno di squadra doriano, nonché amico) Vincenzo
Montella, battendola sonoramente a Marassi. Alla domanda stucchevole del
giornalista di turno, “che cosa invidia a Montella, signor Mihajlovic?”, Sinisa
fu pronto a rispondere – con quel suo sorriso caratteristico tra il beffardo e
lo sprezzante – “I giocatori che gli hanno comprato”.
Questo è
l’uomo che ritrova domenica la Fiorentina a San Siro. Un uomo che per lungo
tempo, è presumibile, coltiverà nel proprio animo desideri e propositi di
rivalsa, se non di vendetta (sportiva), verso la piazza che gli ha dimostrato
così tanto malanimo nei sedici mesi trascorsi sulla panchina viola. Non sapremo
mai se in altre condizioni la sua avventura in riva all’Arno avrebbe potuto
funzionare diversamente. Se avrebbe potuto essere ricordato – a parità o quasi
di carattere e di tecnica – come un Passarella invece che come un inguardabile
individuo, a prescindere dalla sciarpa.
Non
sapremo mai se la società aveva preso davvero un vincente e non seppe dargli le
truppe per vincere. Ce ne rimarrà per sempre il dubbio. E allora, nel dubbio,
onore alla Tigre Sinisa.
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