Se sei un predestinato, in genere lo si vede subito.
Probabilmente già da quando i tuoi genitori ti impongono il nome. Se scelgono
di chiamarti Claudio Cesare, con il nome cioè di due dei più grandi e famosi
imperatori romani, è abbastanza chiaro che auspicano per te un futuro glorioso.
Magari non necessariamente a lieto fine, dato che i due eponimi furono entrambi
assassinati da congiure di palazzo, ma glorioso sì, senz’altro, e a furor di
popolo.
Il popolo fiorentino, o per meglio dire viola, non ha mai
avuto dubbi su Claudio Cesare Prandelli. Bastarono poche battute delle sue
prime conferenze stampa in quell’estate del 2005 in cui arrivò in riva all’Arno
perché la gente che aveva a cuore le sorti di una Fiorentina che veniva da anni
decisamente difficili si rendesse conto di aver trovato l’uomo giusto, quello
della rinascita. I fratelli Della Valle lo chiamarono quell’anno a sedersi
sulla panchina su cui in tre anni si erano alternati Pietro Vierchowod, Alberto
Cavasin, Emiliano Mondonico, Sergio Buso e Dino Zoff. Tutti accomunati da un
minimo denominatore: risultati bene o male sì, gioco zero. Per chi professava
una estetica del calcio al pari di quella ostentata dagli altri prodotti di
famiglia (una specie di marchio Tod’s applicato
al pallone), era venuto il momento di affidarsi a chi poteva far fare il salto
di qualità definitivo a una squadra che si sognava e si prometteva stabilmente
insediata nell’alta classifica ed in grado di giocare divertendo. La squadra fu
rifatta con acquisti importanti, a cominciare da quel Luca Toni che avrebbe
vinto a Firenze la Scarpa d’Oro. E fu affidata al più promettente dei giovani
allenatori che era disponibile al momento. Che avrebbe vinto a Firenze, per ben
due volte, la Panchina d’Oro.
Claudio Cesare Prandelli era stato a cavallo degli anni
settanta e ottanta uno di quei terzini rocciosi che il calcio italiano una volta
produceva in quantità. Cremonese, Atalanta e poi Juventus erano state le
squadre in cui il bresciano di Orzinuovi aveva militato, senza mai sfondare
veramente. Nella Juve che sfilò lo scudetto all’ultima giornata alla Fiorentina
nel 1982 c’erano così tanti campioni che trovare una maglia da titolare era un
problema. Prandelli aveva davanti Cabrini, Gentile, Furino. Fece tanta
panchina, anche se da quella panchina vide i compagni vincere di tutto e di più.
Nel 1985 tornò all’Atalanta, dove visse il crepuscolo della sua carriera. L’ultima
partita la giocò – gli scherzi del destino – a Firenze nel 1990. Fu un 4-1 per
i viola di Baggio, che si salvarono proprio grazie a quel risultato. Baggio poi
salutò e andò alla Juve, Prandelli salutò e appese le scarpe al chiodo,
diventando allenatore. Dalle giovanili alla prima squadra, Prandelli si issò
fino alla serie A, anche se la notorietà gli arrivò solo tra il 2002 e il 2004, in cui riuscì per
due anni consecutivi a portare al quinto posto un Parma che già stava vivendo
la crisi societaria conseguente al crollo della famiglia Tanzi.
A Parma fece talmente bene, lanciando tra l’altro
giocatori come Gilardino o l’eterna promessa Adriano, che si accorse di lui nientemeno
che la Roma di Sensi, che gli offrì di allenare Totti & C. Il mister accettò,
per poi rinunciare pochi giorni dopo non appena si verificò l’insorgere della
malattia che l’avrebbe privato della sua compagna. L’allenatore che rinunciava
ad un contratto remunerativo e prestigioso per stare vicino alla moglie malata
commosse un mondo con il pelo sullo stomaco come quello del calcio italiano, e
Prandelli ne uscì con l’immagine se possibile ancor più ingigantita. Seguì un
anno sabbatico in cui la situazione familiare del mister sembrò stabilizzarsi.
Un anno dopo, sulla panchina della Roma sedeva ormai Spalletti, ma su quella
della Fiorentina non c’era nessuno. Il nuovo DS Corvino avrebbe preferito
qualcun altro (Guidolin, ad esempio), ma i Della Valle scelsero lui, l’uomo che
prima ancora del buon calcio predicava il fair play.
Cominciò così la storia di Prandelli a Firenze. Del suo
passato di gobbo non sembrava
ricordarsi più nessuno, il pubblico fu subito dalla sua, anche perché la sua
squadra giocava bene e vinceva. Panchina d’Oro e Scarpa d’Oro erano il minimo
per una squadra che riuscì a qualificarsi trionfalmente alla Champion’s League
dopo un lungo duello con la Roma di Spalletti. Ed era solo l’inizio, o almeno
così pareva. Invece arrivò Calciopoli a scombinare i programmi di una società
messa in ginocchio da avvisi di garanzia e deferimenti, e tuttavia anche allora
Prandelli emerse come una figura di riferimento – l’unica in quel momento
insieme al “male non fare, paura non
avere” di Diego Della Valle – per i tifosi costretti ancora una
volta a stringersi attorno alla loro squadra in pericolo. A Folgaria nell’estate
2006 fu stretto un patto tra uomini veri, il mister e i suoi ragazzi che
andarono a giocare un campionato ancora più splendido di quello precedente, se
possibile, rimontando 15 punti di penalizzazione e finendo quinti a un passo da
una nuova qualificazione alla Champion’s League. Un’impresa clamorosa e senza recedenti
che valse a Prandelli la seconda Panchina d’Oro.
Il peggio era passato, e finalmente si poteva riprendere
la corsa verso la gloria? Macché, il peggio aveva ancora da venire. Senza più Luca
Toni era difficile far gioco e vincere. Nel 2008 la corsa all’Europa League si
fermò alla semifinale con i Glasgow Rangers e ai calci di rigore che meritavano
miglior sorte, per una squadra che aveva quattro attaccanti di primo piano. In compenso,
uno di questi – il prode Osvaldo – segnò lo splendido gol in rovesciata a
Torino che valse la prima effettiva Champion’s League dell’era Della Valle, e
anche dell’era Prandelli.
Gaio Giulio Cesare fu abbattuto da una congiura di
palazzo. La congiura che avrebbe abbattuto Cesare Prandelli cominciò a lavorare
nella stagione 2008-9. Nell’estate in cui la Fiorentina doveva giocare il
preliminare con lo Slavia Praga, il DS Corvino non trovò di meglio che
perfezionare la vendita del fenomeno Adrian Mutu alla Roma, a due giorni dal
match decisivo. La reazione di Prandelli fu furibonda, Mutu restò a Firenze e dette
alla Fiorentina la qualificazione alla Champions con due gol dei suoi, ma la frattura
tra il tecnico e la società si consumò allora.
Il doppio impegno in campionato e coppa si dimostrò troppo
pesante per i viola, malgrado l’arrivo del bomber Gilardino a fianco di Mutu ed
una rosa molto, forse fin troppo ampia. Cominciarono a venire al pettine alcuni
nodi del carattere di Prandelli. Grande motivatore, capace di rigenerare alcuni
giocatori in crisi come nessun altro (Gilardino era venuto a Firenze proprio
per lui), eppure altrettanto incapace di stabilire un rapporto decente con
altri, che alla fine sono dovuti andar via proprio per rigenerarsi. Pazzini e
Osvaldo chiesero di andarsene ritenendosi ingiustamente penalizzati dal mister,
che “non li vedeva”. Si consumò inoltre la lunga crisi di Manuel Pasqual, da
incontenibile terzino d’attacco alla Cabrini a irriconoscibile fantasma vagante
per il campo, a cui si sovrapponeva un altro fantasma, quel Vargas preso dal
Catania dopo un campionato devastante. Ci volle a Prandelli un intero girone d’andata
prima di capire che non si trattava di un terzino e che con Pasqual si dava
reciprocamente fastidio.
Malgrado tutto, a fine stagione la Fiorentina era di nuovo
in Champion’s. La sensazione era che il salto di qualità definitivo fosse ad un
passo. La società aveva promesso lo scudetto nel 2011. Prandelli ci credeva,
come tutti, e avanzò un paio di richieste in sede di mercato per colmare le
poche lacune dell’organico a sua disposizione. Era l’estate del 2009. Quando saltò
tutto, e la congiura di palazzo scattò per tirarlo giù.
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