venerdì 1 gennaio 2016

Picchio e il Secco



E’ come mangiare caviale e champagne tutti i giorni, dopo non ti piace più niente, per quanto sia stato cucinato bene. Ci sono due numeri di maglia che a Firenze eccitano la fantasia dei tifosi, i quali li ritengono destinati soltanto ai migliori, altrimenti tanto vale ritirarli piuttosto che affidarli a giocatori qualunque: il 9 e il 10. Il numero del centravanti è stato spesso sulla schiena di grandi campioni, a volte addirittura campioni del mondo, fin dai tempi di Petrone, l’uruguaiano iridato nel 1930 e giunto in riva all’Arno pochi anni dopo la nascita della A.C. Fiorentina. Poi è stata la volta di tanti fuoriclasse, da Virgili a Luca Toni, passando per Ciccio Graziani ed il Re Leone, Omar Gabriel Batistuta,. Come si vede, difficile riabituarsi ai comuni mortali.
Ma è con il numero 10 che a Firenze si sconfina nel sacro, e non si tollera il profano. Quando il povero Ruben Olivera qualche anno fa fu gratificato della maglia che una volta si dava all’interno sinistro (e poi al trequartista) da un incauto Sinisa Mihajlovic, mal gliene incolse. Ma come! La maglia appartenuta ad Antognoni, a Baggio, a Rui Costa! Ma ritiriamola piuttosto, come fece il Santos con la maglia di Pelé! Un po’ meglio è andata ultimamente, Federico Bernardeschi promette di entrare nel cuore dei tifosi, essendo dotato della classe e della personalità giuste. Ma insomma, il 10 è un numero con cui non vale la pena di scherzare, da queste parti.
La colpa di tutto questo è stata sua, per cominciare. Fu il primo a rendere leggendaria la maglia viola n. 10. Julinho, il non plus ultra secondo Bernardini che lo aveva allenato, aveva avuto il n. 8, il 10 era di Montuori che però era un puntero. Invece Giancarlo De Sisti (foto a sinistra), nato a Roma il 13 marzo 1943, fu il primo dei numeri 10 viola a giocare guardando le stelle. Era un giocatore di una classe immensa, straordinaria. Uno che – dicevano - sbagliava un passaggio smarcante (o assist, come si dice adesso) in tutto il campionato.
A Roma era nato e a Roma aveva esordito (coté giallorosso) a soli 17 anni in serie A, nella stagione in cui la Roma avrebbe vinto la Coppa delle Fiere (o Coppa Uefa, come fu chiamata in seguito, o Europa League, come la chiamano adesso), doppiando il successo internazionale di un’altra squadra italiana che era nel destino di Giancarlo, anche se allora lui non lo sapeva: la Fiorentina, fresca vincitrice della Coppa delle Coppe. Quella stessa Fiorentina a cui segnò la prima rete della sua carriera, l’1-0 con cui la Roma vinse all’Olimpico nel 1962. I tifosi romanisti lo chiamavano trottola. Inizialmente chiuso dal grande campione al tramonto Schiaffino, dopo il ritiro di quest’ultimo De Sisti divenne titolare fisso tra i capitolini. In tre anni 87 presenze e 13 reti. Insomma, un giocatore da tenersi stretto, per la sua classe e per i suoi numeri in campo prima ancora che per i suoi numeri statistici.
Invece, come le sarebbe accaduto anche in epoche successive, la A.S. Roma di quegli anni era una società in gravi difficoltà economiche (molti tifosi, alcuni anche molto potenti, ma pochi disposti a spendere) e ogni anno doveva privarsi di un pezzo pregiato per pagare i debiti. Nell’estate del 1965 toccò a De Sisti. A Firenze si era appena insediato un presidente abile ed ambizioso, Nello Baglini, che voleva vincere e voleva però farlo tenendo il bilancio in attivo, puntando quindi sui giovani promettenti. La trottola prese quindi l’Autostrada del Sole in direzione nord.
I tifosi fiorentini quell’anno si videro arrivare due ragazzi romani di belle speranze, uno già affermato, che prese la maglia n. 10 e fu messo a fare il regista, e l’altro prelevato dal settore giovanile di una società romana minore, la Tevere Roma, a cui fu data la maglia n. 8 e una posizione da trequartista: Claudio Merlo (foto a destra). Con il loro humour impareggiabile, i tifosi ribattezzarono subito la nuova coppia di centrocampo viola: se da una parte c’era Merlo, dall’altra c’era Picchio. Questo fu il nome con cui fu consegnato alla storia De Sisti, mentre il suo compagno (data la stazza fisica) diventò il Secco.
Picchio e il Secco vinsero subito una Coppa Italia, nel 1966. Ma a Baglini non bastava. Venduti il vecchio Hamrin e i giovani Albertosi e Brugnera, con il ricavato portò a Firenze Amarildo, Maraschi e Chiarugi. Nel 1969 favoriti erano il Milan di Rivera ed il Cagliari di Riva. Vinse la Fiorentina di Picchio e del Secco, compari di un centrocampo che a detta di tutti quell’anno non ebbe rivali, grazie anche alla sicurezza data dietro da Brizi, Ferrante ed Esposito.
Inevitabile che di loro si accorgesse anche il selezionatore della Nazionale, all’epoca quel Ferruccio Valcareggi ex giocatore viola che aveva preso casa a Firenze, tra l’altro. Ma se Merlo ebbe soltanto l’onore di una convocazione, in quell’anno di grazia 1969, a Picchio andò molto meglio, essendo convocato già per le qualificazioni all’Europeo del 1968, che l’Italia giocò in casa e vinse, con la ripetizione della finale con la Jugoslavia. Nella seconda finale, De Sisti fu schierato in campo e poté quindi prendere parte all’apoteosi conclusiva. Divenuto titolare fisso, partecipò anche all’epopea di Mexico 70, giocando tutte le partite compreso il match del secolo Italia-Germania 4-3 e la finale in cui facemmo tremare nientemeno che il Brasile di Sua maestà Pele’, o Rey. Mentre Rivera e Mazzola si scannavano per l’altro posto a centrocampo, Picchio mantenne il suo stabilmente, senza mai discussioni da parte di nessuno.
Dopo il periodo d’oro, con il declino sia della Fiorentina ye ye di Baglini che della grande Nazionale azzurra di Valcareggi, Picchio rimase un idolo del pubblico fiorentino finché non venne ad affiancarglisi il suo successore, anche lui di nome Giancarlo, anche lui sfilato di mano ad una concorrente, anche lui con gli occhi fissi a guardare le stelle mentre giocava. Antognoni e De Sisti avrebbero potuto giocare a lungo insieme, e con loro Claudio Merlo. Ma a quel punto la Fiorentina stava incontrando difficoltà economiche, tutti questi fuoriclasse erano troppi per poterseli permettere, fu scelto di puntare sui più giovani. La maglia numero 10 viola rimase ad Antognoni, Picchio andò a riprendersi quella della Roma, e poco dopo il Secco passò all’Inter., dopo aver vinto una Coppa Italia, che sarebbe rimasto l'ultimo trofeo alzato dai viola per molto tempo.
Picchio concluse la sua carriera nel 1979, nella triste e pericolante Roma di Anzalone. Il Secco lasciò l’Inter alla vigilia dello scudetto di Bersellini e andò a finire nel Lecce, dove la sua carriera si chiuse purtroppo con una squalifica legata al primo scandalo del Calcioscommesse. Per entrambi si poneva il problema di cosa fare dopo aver appeso gli scarpini al chiodo. Per entrambi la risposta fu: diventare allenatori. Ma se per Merlo si trattò a conti fatti di rimanere nell’ambito delle squadre minori fiorentine, o comunque toscane, per Picchio anche in questa sua nuova carriera il destino aveva ancora in serbo le luci della ribalta.
Aveva appena preso il patentino di allenatore a Coverciano Picchio De Sisti, quando si rese libero il posto di allenatore proprio in una squadra alla quale lui non poteva assolutamente dire di no. Da pochi mesi, la Fiorentina era passata dalla gestione di Ugolini a quella dei Pontello, che a dispetto dei loro proclami di vittoria a breve scadenza all’inizio dovettero confrontarsi con la realtà di una squadra che alla fine degli anni 70 non era proprio di primo piano. A gennaio 1981 anzi quella squadra era in piena zona retrocessione, dopo quella evitata per miracolo tre anni prima, ed in rotta con il suo allenatore Paolo Carosi. Serviva una sterzata, i Pontello lo capivano bene, e a differenza di certi loro successori, non disdegnavano certo le bandiere care ai fiorentini. In squadra c’era ancora a giocare la bandiera Antognoni. La panchina, pensarono, affidiamola alla bandiera De Sisti.
L’allenatore Picchio fu amato da Firenze quanto era stato amato il giocatore. I giocatori lo presero a ben volere, sentendolo uno di loro, e che per di più ci capiva. La salvezza arrivò facilmente, grazie ad alcuni brillanti risultati tra cui una vittoria a San Siro in casa dell’Inter. L’anno dopo, i Pontello gli misero in mano un squadrone, e fino alla fine sembrò che colui che aveva vinto il secondo scudetto sul campo avrebbe diretto dalla panchina gli uomini che avrebbero vinto il terzo.
Mancò la fortuna, non il valore, si dice in questi casi. La Juventus di quell’anno insieme ad una Federazione mal disposta ad una proroga del campionato con spareggio (di lì a poco partiva la nazionale per il Mondiale di Spagna 82) si rivelarono ostacoli insormontabili anche per una Fiorentina che andava a mille, capace anche di assorbire una tegola come il grave infortunio ad Antognoni con Martina del Genoa. Nonostante la delusione, né i Pontello né Picchio comunque si arresero, arrivarono altri campioni e la Fiorentina targata De Sisti ci riprovò.
Nel 1982-83 Passarella stentò ad ambientarsi, e poi era l’anno della Roma di Falcao e Bruno Conti. L’anno dopo invece sembrava proprio l’anno di una Fiorentina che giocava così bene come poche volte si era visto, forse solo negli anni dei due scudetti, e quasi mai si sarebbe visto in seguito. Ma di nuovo il destino disse di no, Antognoni ebbe il secondo infortunio grave, calò una coltre di rassegnazione su una squadra che avrebbe meritato di più, e fu un altro anno in cui i viola si ritrovarono con niente in mano.
L’anno successivo fu l’anno di Socrates, e di nuove grandi speranze. Ma stavolta l’infortunio capitò proprio a lui, a Picchio, che dopo pochi mesi dall’avvio del campionato ebbe un malore che sembrò subito di grave entità. Ascesso cerebrale, dissero i medici, probabilmente dovuto a troppo stress. L’ex ragazzo che non perdeva mai né la testa né la calma, dal carattere d’oro, alla fine aveva accusato il colpo anche lui. Questa Fiorentina aveva finito per chiedergli troppo.
La prognosi era di sei mesi di riposo assoluto. Ma Picchio, su insistenza dei Pontello, provò a rientrare dopo soli 45 giorni. Un po’ la sua salute incerta, un po’ la delusione per un altro anno che stava scivolando via al di sotto delle aspettative (con il Dottor Socrates che non teneva fede alla sua fama) lo convinsero a mollare, rifiutando anche la supervisione del suo vecchio maestro, Ferruccio Valcareggi, che gli successe quindi da solo alla guida di una squadra ormai spenta.
La vecchia bandiera viola provò in seguito ad allenare ancora, lontano da Firenze. Ma la sua fortuna si era evidentemente esaurita, tra vari incarichi anche dirigenziali sia a livello di nazionale che di club, la gloria dei suoi anni d'oro a Firenze non si rinverdì più. Ad Ascoli addirittura dei facinorosi lo minacciarono, e fu l'ultima volta che Picchio sedette su una panchina di una squadra di calcio.
Sono passati tanti anni, Picchio e il Secco restano gli eroi dell’ultimo, ormai lontano, scudetto viola. Chissà che effetto fa loro vedere la Fiorentina di adesso. Probabilmente sognano quello che sogniamo tutti noi: di veder appendere accanto al loro poster ormai un po’ sbiadito, quello di un’altra squadra in maglia viola con sopra scritto campione d’Italia.

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