E’ come mangiare caviale e
champagne tutti i giorni, dopo non ti piace più niente, per quanto sia stato
cucinato bene. Ci sono due numeri di maglia che a Firenze eccitano la fantasia
dei tifosi, i quali li ritengono destinati soltanto ai migliori, altrimenti
tanto vale ritirarli piuttosto che affidarli a giocatori qualunque: il 9 e il
10. Il numero del centravanti è stato spesso sulla schiena di grandi campioni,
a volte addirittura campioni del mondo, fin dai tempi di Petrone, l’uruguaiano
iridato nel 1930 e giunto in riva all’Arno pochi anni dopo la nascita della
A.C. Fiorentina. Poi è stata la volta di tanti fuoriclasse, da Virgili a Luca
Toni, passando per Ciccio Graziani ed il Re Leone, Omar Gabriel Batistuta,.
Come si vede, difficile riabituarsi ai comuni mortali.
Ma è con il numero 10 che a
Firenze si sconfina nel sacro, e non si tollera il profano. Quando il povero
Ruben Olivera qualche anno fa fu gratificato della maglia che una volta si dava
all’interno sinistro (e poi al trequartista) da un incauto Sinisa Mihajlovic,
mal gliene incolse. Ma come! La maglia appartenuta ad Antognoni, a Baggio, a
Rui Costa! Ma ritiriamola piuttosto, come fece il Santos con la maglia di
Pelé! Un po’ meglio è andata ultimamente, Federico Bernardeschi promette di entrare
nel cuore dei tifosi, essendo dotato della classe e della personalità giuste.
Ma insomma, il 10 è un numero con cui non vale la pena di scherzare, da queste
parti.
La colpa di tutto questo è stata
sua, per cominciare. Fu il primo a rendere leggendaria la maglia viola n. 10.
Julinho, il non plus ultra secondo Bernardini che lo aveva allenato,
aveva avuto il n. 8, il 10 era di Montuori che però era un puntero.
Invece Giancarlo De Sisti (foto a sinistra), nato a Roma il 13 marzo 1943, fu
il primo dei numeri 10 viola a giocare guardando le stelle. Era un giocatore di
una classe immensa, straordinaria. Uno che – dicevano - sbagliava un passaggio
smarcante (o assist, come si dice adesso) in tutto il campionato.
A Roma era nato e a Roma aveva
esordito (coté giallorosso) a soli 17 anni in serie A, nella stagione in
cui la Roma avrebbe vinto la Coppa delle Fiere (o Coppa Uefa, come fu chiamata
in seguito, o Europa League, come la chiamano adesso), doppiando il successo
internazionale di un’altra squadra italiana che era nel destino di Giancarlo,
anche se allora lui non lo sapeva: la Fiorentina, fresca vincitrice della Coppa
delle Coppe. Quella stessa Fiorentina a cui segnò la prima rete della sua
carriera, l’1-0 con cui la Roma vinse all’Olimpico nel 1962. I tifosi romanisti
lo chiamavano trottola. Inizialmente chiuso dal grande campione al tramonto
Schiaffino, dopo il ritiro di quest’ultimo De Sisti divenne titolare fisso tra i
capitolini. In tre anni 87 presenze e 13 reti. Insomma, un giocatore da tenersi
stretto, per la sua classe e per i suoi numeri in campo prima ancora che per i
suoi numeri statistici.
Invece, come le sarebbe accaduto
anche in epoche successive, la A.S. Roma di quegli anni era una società in
gravi difficoltà economiche (molti tifosi, alcuni anche molto potenti, ma pochi
disposti a spendere) e ogni anno doveva privarsi di un pezzo pregiato per
pagare i debiti. Nell’estate del 1965 toccò a De Sisti. A Firenze si era appena
insediato un presidente abile ed ambizioso, Nello Baglini, che voleva vincere e
voleva però farlo tenendo il bilancio in attivo, puntando quindi sui giovani
promettenti. La trottola prese quindi l’Autostrada del Sole in direzione nord.
I tifosi fiorentini quell’anno si
videro arrivare due ragazzi romani di belle speranze, uno già affermato, che
prese la maglia n. 10 e fu messo a fare il regista, e l’altro prelevato dal
settore giovanile di una società romana minore, la Tevere Roma, a cui fu data
la maglia n. 8 e una posizione da trequartista: Claudio Merlo (foto a destra).
Con il loro humour impareggiabile, i tifosi ribattezzarono subito la
nuova coppia di centrocampo viola: se da una parte c’era Merlo, dall’altra
c’era Picchio. Questo fu il nome con cui fu consegnato alla storia De
Sisti, mentre il suo compagno (data la stazza fisica) diventò il Secco.
Picchio e il Secco vinsero subito
una Coppa Italia, nel 1966. Ma a Baglini non bastava. Venduti il vecchio Hamrin
e i giovani Albertosi e Brugnera, con il ricavato portò a Firenze Amarildo,
Maraschi e Chiarugi. Nel 1969 favoriti erano il Milan di Rivera ed il Cagliari
di Riva. Vinse la Fiorentina di Picchio e del Secco, compari di un centrocampo
che a detta di tutti quell’anno non ebbe rivali, grazie anche alla sicurezza
data dietro da Brizi, Ferrante ed Esposito.
Inevitabile che di loro si
accorgesse anche il selezionatore della Nazionale, all’epoca quel Ferruccio
Valcareggi ex giocatore viola che aveva preso casa a Firenze, tra l’altro. Ma
se Merlo ebbe soltanto l’onore di una convocazione, in quell’anno di grazia 1969, a Picchio andò molto
meglio, essendo convocato già per le qualificazioni all’Europeo del 1968, che
l’Italia giocò in casa e vinse, con la ripetizione della finale con la
Jugoslavia. Nella seconda finale, De Sisti fu schierato in campo e poté quindi
prendere parte all’apoteosi conclusiva. Divenuto titolare fisso, partecipò
anche all’epopea di Mexico 70, giocando tutte le partite compreso il match del
secolo Italia-Germania 4-3 e la finale in cui facemmo tremare nientemeno che il
Brasile di Sua maestà Pele’, o Rey. Mentre Rivera e Mazzola si scannavano per
l’altro posto a centrocampo, Picchio mantenne il suo stabilmente, senza mai
discussioni da parte di nessuno.
Dopo il periodo d’oro, con il
declino sia della Fiorentina ye ye di Baglini che della grande Nazionale
azzurra di Valcareggi, Picchio rimase un idolo del pubblico fiorentino finché non
venne ad affiancarglisi il suo successore, anche lui di nome Giancarlo, anche
lui sfilato di mano ad una concorrente, anche lui con gli occhi fissi a
guardare le stelle mentre giocava. Antognoni e De Sisti avrebbero potuto
giocare a lungo insieme, e con loro Claudio Merlo. Ma a quel punto la
Fiorentina stava incontrando difficoltà economiche, tutti questi fuoriclasse
erano troppi per poterseli permettere, fu scelto di puntare sui più giovani. La
maglia numero 10 viola rimase ad Antognoni, Picchio andò a riprendersi quella
della Roma, e poco dopo il Secco passò all’Inter., dopo aver vinto una Coppa
Italia, che sarebbe rimasto l'ultimo trofeo alzato dai viola per molto tempo.
Picchio concluse la sua
carriera nel 1979, nella triste e pericolante Roma di Anzalone. Il Secco lasciò
l’Inter alla vigilia dello scudetto di Bersellini e andò a finire nel Lecce,
dove la sua carriera si chiuse purtroppo con una squalifica legata al
primo scandalo del Calcioscommesse. Per entrambi si poneva il problema di cosa fare
dopo aver appeso gli scarpini al chiodo. Per entrambi la risposta fu: diventare
allenatori. Ma se per Merlo si trattò a conti fatti di rimanere nell’ambito
delle squadre minori fiorentine, o comunque toscane, per Picchio anche in
questa sua nuova carriera il destino aveva ancora in serbo le luci della
ribalta.
Aveva appena preso il
patentino di allenatore a Coverciano Picchio De Sisti, quando si rese libero il
posto di allenatore proprio in una squadra alla quale lui non poteva
assolutamente dire di no. Da pochi mesi, la Fiorentina era passata dalla
gestione di Ugolini a quella dei Pontello, che a dispetto dei loro proclami di
vittoria a breve scadenza all’inizio dovettero confrontarsi con la realtà di
una squadra che alla fine degli anni 70 non era proprio di primo piano. A
gennaio 1981 anzi quella squadra era in piena zona retrocessione, dopo quella
evitata per miracolo tre anni prima, ed in rotta con il suo allenatore Paolo
Carosi. Serviva una sterzata, i Pontello lo capivano bene, e a differenza di
certi loro successori, non disdegnavano certo le bandiere care ai
fiorentini. In squadra c’era ancora a giocare la bandiera Antognoni. La
panchina, pensarono, affidiamola alla bandiera De Sisti.
L’allenatore Picchio fu amato da
Firenze quanto era stato amato il giocatore. I giocatori lo presero a ben
volere, sentendolo uno di loro, e che per di più ci capiva. La salvezza
arrivò facilmente, grazie ad alcuni brillanti risultati tra cui una vittoria a
San Siro in casa dell’Inter. L’anno dopo, i Pontello gli misero in mano un
squadrone, e fino alla fine sembrò che colui che aveva vinto il secondo
scudetto sul campo avrebbe diretto dalla panchina gli uomini che avrebbero
vinto il terzo.
Mancò la fortuna, non il
valore, si dice in questi casi. La Juventus di quell’anno insieme ad una
Federazione mal disposta ad una proroga del campionato con spareggio (di lì a
poco partiva la nazionale per il Mondiale di Spagna 82) si rivelarono ostacoli
insormontabili anche per una Fiorentina che andava a mille, capace anche di
assorbire una tegola come il grave infortunio ad Antognoni con Martina del
Genoa. Nonostante la delusione, né i Pontello né Picchio comunque si arresero,
arrivarono altri campioni e la Fiorentina targata De Sisti ci riprovò.
Nel 1982-83 Passarella stentò
ad ambientarsi, e poi era l’anno della Roma di Falcao e Bruno Conti. L’anno
dopo invece sembrava proprio l’anno di una Fiorentina che giocava così bene
come poche volte si era visto, forse solo negli anni dei due scudetti, e quasi
mai si sarebbe visto in seguito. Ma di nuovo il destino disse di no, Antognoni
ebbe il secondo infortunio grave, calò una coltre di rassegnazione su una
squadra che avrebbe meritato di più, e fu un altro anno in cui i viola si
ritrovarono con niente in mano.
L’anno successivo fu l’anno di
Socrates, e di nuove grandi speranze. Ma stavolta l’infortunio capitò proprio a
lui, a Picchio, che dopo pochi mesi dall’avvio del campionato ebbe un malore
che sembrò subito di grave entità. Ascesso cerebrale, dissero i medici,
probabilmente dovuto a troppo stress. L’ex ragazzo che non perdeva mai né la
testa né la calma, dal carattere d’oro, alla fine aveva accusato il colpo anche
lui. Questa Fiorentina aveva finito per chiedergli troppo.
La prognosi era di sei mesi di
riposo assoluto. Ma Picchio, su insistenza dei Pontello, provò a rientrare dopo
soli 45 giorni. Un po’ la sua salute incerta, un po’ la delusione per un altro
anno che stava scivolando via al di sotto delle aspettative (con il Dottor
Socrates che non teneva fede alla sua fama) lo convinsero a mollare, rifiutando
anche la supervisione del suo vecchio maestro, Ferruccio Valcareggi, che gli
successe quindi da solo alla guida di una squadra ormai spenta.
La vecchia bandiera viola
provò in seguito ad allenare ancora, lontano da Firenze. Ma la sua fortuna si
era evidentemente esaurita, tra vari incarichi anche dirigenziali sia a livello
di nazionale che di club, la gloria dei suoi anni d'oro a Firenze non si
rinverdì più. Ad Ascoli addirittura dei facinorosi lo minacciarono, e fu
l'ultima volta che Picchio sedette su una panchina di una squadra di calcio.
Sono passati tanti anni,
Picchio e il Secco restano gli eroi dell’ultimo, ormai lontano, scudetto viola.
Chissà che effetto fa loro vedere la Fiorentina di adesso. Probabilmente sognano quello che sogniamo tutti noi:
di veder appendere accanto al loro poster ormai un po’ sbiadito, quello di
un’altra squadra in maglia viola con sopra scritto campione d’Italia.
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