venerdì 1 gennaio 2016

Alberto Di Chiara e quella sporca finale

«Quando sono arrivato a Firenze non comprendevo perché la gente odiasse così tanto la Juventus. Quando sono andato via, avevo capito tutto». Scrive così Alberto Di Chiara nel suo libro Quella sporca finale, scritto insieme a Paolo Camilli, Edizioni PSE, nel quale racconta ricordi ed emozioni di una delle più incredibili stagioni della storia della Fiorentina. Quel 1989-90 in cui anche lui vestiva la maglia viola, alternandosi tra un campionato da zona retrocessione, evitata solo all'ultima giornata battendo 4-1 l'Atalanta in cui giocò l'ultima partita della sua carriera un certo Cesare Prandelli, e una Coppa UEFA da marcia trionfale, almeno fino all'atto finale.
Il romano Alberto era uno dei prodotti di quel vivaio romanista che già nei primi anni 80 sfornava giovani campioni in quantità. Impiegato a volte in prima squadra da Nils Liedholm, lo ripagò con buone prestazioni come quella che dette nel 1981 alla Roma la vittoria a Firenze con un suo gol ed il passaggio alle semifinali di Coppa Italia. Mandato in provincia a farsi le ossa, finì a Lecce alla corte di Eugenio Fascetti insieme al fratello Stefano, e con il tecnico viareggino visse la stagione della promozione in A e quella del ritorno in B, nel 1986, non senza prima aver compiuto un'impresa ai danni della sua squadra e della sua città d'origine.
Nella tarda primavera del 1986 la Roma di Sven Goran Eriksson aveva compiuto una rimonta spettacolare sulla Juventus di Giovanni Trapattoni. A due giornate dalla fine erano appaiate in classifica, la Juventus aveva il Milan in casa, la Roma ospitava il Lecce già retrocesso. Fu uno dei finali di campionato più rocamboleschi di sempre, con i giallorossi capitolini che vanificarono il loro splendido campionato perdendo in casa con i giallorossi salentini, e consegnando lo scudetto ai rivali bianconeri.
Nel destino di Alberto Di Chiara a quel punto c'era quella Fiorentina a cui una volta aveva dato un dispiacere. Pontello decise una rifondazione cedendo i campioni che avevano sfiorato lo scudetto nel 1982 e ci avevano riprovato nel 1984. Alla sua corte arrivarono diversi giovani di belle speranze: un nome su tutti, quello di Roberto Baggio dal Lanerossi Vicenza. Un altro, diventato più avanti sinonimo di flop clamoroso, quello di Oscar Dertycia, centravanti argentino arrivato a sostituire il povero Stefano Borgonovo passato al Milan, infortunatosi subito e poi mai in grado di tener fede alle aspettative, fino ad ammalarsi - e a far ammalare i tifosi - di esaurimento nervoso.
Alberto era un'ala, e nella Fiorentina della B&B i suoi cross facevano assai comodo. Ma la sua carriera fiorentina si concluse da terzino, reinventato in questo ruolo dal tecnico brasiliano Sebastiao Lazaroni, ingaggiato per l'ennesima rifondazione dal presidente viola. Non più Ranieri Pontello, ma Mario Cecchi Gori. Già perché nel mezzo c'era stata la stagione 1989-90 e il suo finale rocambolesco e drammatico.
Alberto Di ChiaraLa Fiorentina allenata da Bruno Giorgi prima e da Ciccio Graziani poi visse un'annata tribolata. La squadra non era male, Marco Nappi, Beppe Iachini, Mario Faccenda, Lubos Kubik, Stefano Pioli, Renato Buso e il giovane Malusci erano buoni giocatori, ma la stagione si rivelò maledetta e fortunata insieme. Lo stadio Comunale di Firenze, non ancora intitolato ad Artemio Franchi, fu oggetto di ristrutturazione in vista di Italia 90. La Fiorentina giocava a giro per l'Italia chiedendo ospitalità, più spesso a Perugia. In campionato le cose si misero male, malgrado i gol e lo spettacolo di Baggio. In Coppa invece si misero benissimo.
Alberto Di Chiara con Borgonovo e
Baggio a Firenze l'8 ottobre 2008
Negli ottavi di finale la Fiorentina eliminò nientemeno che la mitica Dinamo Kiev del colonnello Lobanovsky, la squadra più leggendaria della storia dell'U.R.S.S., quella di Oleg Blochin per capirsi, destinata a concludere il suo ciclo insieme all'U.R.S.S. stessa. All'epoca di quell'ottavo di finale, giocato a dicembre 1989 a ridosso dei rigori dell'inverno russo, il ciclo era ancora ben lontano da concludersi. A chi chiese al colonnello quante probabilità avesse la squadra viola di passare il turno, questi rispose secco e sprezzante: «Sotto zero».
E invece passò la Fiorentina, aggiungendo lo scalpo più illustre alla collezione di quell'anno che già comprendeva l'Atletico Madrid, il Sochaux, l'Auxerre e il Werder Brema. Con i tedeschi nella semifinale di Perugia si verificarono degli incidenti, e il campo della Fiorentina fu squalificato. Era destino che quell'anno a Firenze non si giocasse, malgrado lo stadio a maggio fosse già pronto per gli imminenti mondiali.
Era destino anche che la Fiorentina e Alberto Di Chiara incontrassero in finale quella che ormai era la Nemesi viola: la Juventus. La squadra bianconera non era paragonabile per organico a quella che aveva dominato dall'inizio degli anni settanta alla metà degli anni ottanta, ma l'allenatore Dino Zoff ne aveva fatto una formazione comunque forte, capace di battere il Milan di Sacchi e degli olandesi a Milano nella finale di Coppa Italia.
Cosa successe nella finale di Coppa UEFA del 1990, e soprattutto nei giorni seguenti, è storia viola, ormai. I giorni della rabbia e dell'odio segnarono per sempre i rapporti tra Fiorentina e Juventus. Alberto Di Chiara trascorse un altro anno in riva all'Arno, dopo il passaggio della società viola a Cecchi Gori e durante la breve stagione di Lazaroni. Poi fu ceduto al Parma di Tanzi, dove proseguì la sua carriera di terzino acquisito e soprattutto le sue sfide con la Juventus, a volte con maggior fortuna di quella avuta a Firenze, in quella stagione in cui aveva capito una volta per tutte come può nascere e sedimentarsi un odio senza fine.

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