«Quando sono arrivato a Firenze non comprendevo perché
la gente odiasse così tanto la Juventus. Quando sono andato via, avevo capito
tutto». Scrive così Alberto Di Chiara nel suo libro Quella sporca finale,
scritto insieme a Paolo Camilli, Edizioni PSE, nel quale racconta ricordi ed
emozioni di una delle più incredibili stagioni della storia della Fiorentina.
Quel 1989-90 in
cui anche lui vestiva la maglia viola, alternandosi tra un campionato da zona
retrocessione, evitata solo all'ultima giornata battendo 4-1 l'Atalanta in cui giocò
l'ultima partita della sua carriera un certo Cesare Prandelli, e una Coppa UEFA
da marcia trionfale, almeno fino all'atto finale.
Il romano Alberto era uno dei
prodotti di quel vivaio romanista che già nei primi anni 80 sfornava giovani
campioni in quantità. Impiegato a volte in prima squadra da Nils Liedholm, lo
ripagò con buone prestazioni come quella che dette nel 1981 alla Roma la
vittoria a Firenze con un suo gol ed il passaggio alle semifinali di Coppa
Italia. Mandato in provincia a farsi le ossa, finì a Lecce alla corte di
Eugenio Fascetti insieme al fratello Stefano, e con il tecnico viareggino visse
la stagione della promozione in A e quella del ritorno in B, nel 1986, non senza
prima aver compiuto un'impresa ai danni della sua squadra e della sua città
d'origine.
Nella tarda primavera del 1986
la Roma di Sven Goran Eriksson aveva compiuto una rimonta spettacolare sulla
Juventus di Giovanni Trapattoni. A due giornate dalla fine erano appaiate in
classifica, la Juventus aveva il Milan in casa, la Roma ospitava il Lecce già
retrocesso. Fu uno dei finali di campionato più rocamboleschi di sempre, con i
giallorossi capitolini che vanificarono il loro splendido campionato perdendo
in casa con i giallorossi salentini, e consegnando lo scudetto ai rivali
bianconeri.
Nel destino di Alberto Di
Chiara a quel punto c'era quella Fiorentina a cui una volta aveva dato un
dispiacere. Pontello decise una rifondazione cedendo i campioni che avevano
sfiorato lo scudetto nel 1982 e ci avevano riprovato nel 1984. Alla sua corte
arrivarono diversi giovani di belle speranze: un nome su tutti, quello di
Roberto Baggio dal Lanerossi Vicenza. Un altro, diventato più avanti sinonimo
di flop clamoroso, quello di Oscar Dertycia, centravanti argentino arrivato a
sostituire il povero Stefano Borgonovo passato al Milan, infortunatosi subito e
poi mai in grado di tener fede alle aspettative, fino ad ammalarsi - e a far
ammalare i tifosi - di esaurimento nervoso.
Alberto era un'ala, e nella
Fiorentina della B&B i suoi cross facevano assai comodo. Ma la sua carriera
fiorentina si concluse da terzino, reinventato in questo ruolo dal tecnico
brasiliano Sebastiao Lazaroni, ingaggiato per l'ennesima rifondazione dal presidente
viola. Non più Ranieri Pontello, ma Mario Cecchi Gori. Già perché nel mezzo
c'era stata la stagione 1989-90 e il suo finale rocambolesco e drammatico.
La Fiorentina allenata da Bruno Giorgi prima e da
Ciccio Graziani poi visse un'annata tribolata. La squadra non era male, Marco
Nappi, Beppe Iachini, Mario Faccenda, Lubos Kubik, Stefano Pioli, Renato Buso e
il giovane Malusci erano buoni giocatori, ma la
stagione si rivelò maledetta e fortunata insieme. Lo stadio Comunale di
Firenze, non ancora intitolato ad Artemio Franchi, fu oggetto di
ristrutturazione in vista di Italia 90. La Fiorentina giocava a giro per l'Italia
chiedendo ospitalità, più spesso a Perugia. In campionato le cose si misero
male, malgrado i gol e lo spettacolo di Baggio. In Coppa invece si misero
benissimo.
Alberto Di Chiara con Borgonovo e Baggio a Firenze l'8 ottobre 2008 |
Negli ottavi di finale la
Fiorentina eliminò nientemeno che la mitica Dinamo Kiev del colonnello
Lobanovsky, la squadra più leggendaria della storia dell'U.R.S.S., quella di
Oleg Blochin per capirsi, destinata a concludere il suo ciclo insieme
all'U.R.S.S. stessa. All'epoca di quell'ottavo di finale, giocato a dicembre 1989 a ridosso dei rigori
dell'inverno russo, il ciclo era ancora ben lontano da concludersi. A chi
chiese al colonnello quante probabilità avesse la squadra viola di passare il
turno, questi rispose secco e sprezzante: «Sotto zero».
E invece passò la Fiorentina,
aggiungendo lo scalpo più illustre alla collezione di quell'anno che già
comprendeva l'Atletico Madrid, il Sochaux, l'Auxerre e il Werder Brema. Con i
tedeschi nella semifinale di Perugia si verificarono degli incidenti, e il campo della Fiorentina fu squalificato. Era destino che
quell'anno a Firenze non si giocasse, malgrado lo stadio a maggio fosse già
pronto per gli imminenti mondiali.
Era destino anche che la
Fiorentina e Alberto Di Chiara incontrassero in finale quella che ormai era la
Nemesi viola: la Juventus. La squadra bianconera non era paragonabile per
organico a quella che aveva dominato dall'inizio degli anni settanta alla metà
degli anni ottanta, ma l'allenatore Dino Zoff ne aveva fatto una formazione
comunque forte, capace di battere il Milan di Sacchi e degli olandesi a Milano
nella finale di Coppa Italia.
Cosa successe nella finale di
Coppa UEFA del 1990, e soprattutto nei giorni seguenti, è storia viola, ormai. I giorni della rabbia e
dell'odio segnarono per sempre i rapporti tra Fiorentina e Juventus. Alberto Di
Chiara trascorse un altro anno in riva all'Arno, dopo il passaggio della
società viola a Cecchi Gori e durante la breve stagione di Lazaroni. Poi fu
ceduto al Parma di Tanzi, dove proseguì la sua carriera di terzino acquisito e
soprattutto le sue sfide con la Juventus, a volte con maggior fortuna di quella
avuta a Firenze, in quella stagione in cui aveva capito una volta per tutte come può
nascere e sedimentarsi un odio senza fine.
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