lunedì 18 gennaio 2016

VIOLA VINTAGE: Viale dei Mille

da "La Nazione" del 15 marzo 2012

VENTISEI gennaio 1975, Fiorentina battuta in casa dalla Samp (reti di Prunecchi e Maraschi). Sulla squadra volteggiano voci di dolce vita che l’allenatore Rocco — già sotto choc per i famosi pantaloni rossi di Speggiorin e le potenti auto esibite dai calciatori — non ridimensiona con le sue occhiate cupe. I giovani del gruppo sono nel mirino e la sconfitta in casa è la scusa per una lezione spicciola di galateo.Il 26 gennaio 1975 è il giorno della contestazione delle contestazioni, quella che nella memoria è archiviata come la vittoria suprema del tifoso: la rabbia del popolo e i giocatori che scappano a piedi, soddisfazione massima senza feriti, la rivincita sui divi che ritornano umani scappando sulle gambe, che all’occorrenza sanno muovere con frequenze notevoli.La pista era quella del viale dei Mille, la distanza i 500 metri piani.
Dopo 34 anni il protagonista dello sprint sorride al ricordo. Claudio Desolati aveva vent’anni e contro la Samp aveva giocato solo un quarto d’ora entrando nel finale al posto di Guerini: «Io c’entravo poco, ma mi trovai in mezzo a quella bolgia e corsi come Mennea».
Ricostruiamo l’episodio, se le va.
«Come no. Restammo chiusi un’ora e mezzo negli spogliatoi, poi un dirigente accompagnò me e Speggiorin nella sede viola, che era nel viale dei Mille. Quando uscii capii subito che non era il caso di parlare con chi ci stava aspettando».
E allora?
«C’era Carlo, il cuoco della nostra mensa. Gli dissi: coprimi, che io parto. Lui non capì, mi chiese che fai, ma ero già scappato. Più di cinquecento metri a tutto fuoco, anche se avevo uno strappo muscolare alla coscia destra. Ogni tanto mi voltavo e gli inseguitori perdevano terreno».
E poi?
«Avevo la macchina in un garage, la presi e fuggii a casa. Quando arrivai avevo la febbre a 39 per la paura. Il giorno dopo però era finito tutto, arrivai allo stadio e nessuno mi offese».
I tifosi avevano ragione a contestarvi?
«In quel periodo andavamo in ritiro da una settimana all’altra, anche volendo non avremmo avuto la possibilità di fare niente di particolare... Ma quando la squadra perde, la gente ha sempre ragione».
Anche oggi?
«Anche oggi. Non vorrei che a Firenze qualcuno si fosse adagiato, soprattutto fra i più giovani. I tifosi hanno ragione: in campo bisogna correre».

venerdì 1 gennaio 2016

Zarate Kid è tornato



Sessantesimo minuto di Fiorentina - Qarabag. Il risultato ormai è ampiamente a posto per la Fiorentina, ed il suo allenatore decide che è il caso di dare un’occhiata alle condizioni in cui si trova quella che dovrebbe essere una delle armi migliori della sua squadra e che invece – per vicissitudini di natura personale – negli ultimi tempi si è perso completamente di vista.
Non è dato sapere quanto ci creda veramente Paulo Sousa, quando manda in campo Mauro Zarate al posto di Nikola Kalinic. Quanto ci creda Maurito lo si capisce un minuto dopo, quando il portiere Sehic della squadra ospite deve andare a raccogliere in fondo alla rete il pallone del 4 – 0, scagliato dal piede nobile dell’argentino caricato in maniera esplosiva da una voglia di spaccare un mondo diventatogli improvvisamente ostile. Un gol di quelli che una volta, quando il calcio era fatto anche di iperboli ispirate da grandi gesti tecnici di grandissimi campioni, si chiamava eurogol.
Sul prato del Franchi si rivede qualcosa che ormai appartiene ad un passato glorioso, ma che comincia ad avere i colori sbiaditi delle immagini invecchiate dal gran tempo passato. Esattamente vent’anni fa, a San Siro, dopo aver segnato anche lui un eurogol, un marito che aveva da dire qualcosa di importante alla propria moglie si gettò sulla più vicina telecamera per rilasciarle in mondovisione al sua dichiarazione. Si chiamava Omar Gabriel Batistuta, sì, proprio colui che domani riceverà la cittadinanza onoraria di Firenze. E che Firenze, al pari di sua moglie Irina, non è più riuscita a levarsi dal cuore.
Vent’anni dopo, un altro argentino termina la sua corsa festante davanti alla telecamera. Anche lui ha da dire qualcosa di importante a sua moglie, che in questo momento combatte in una partita molto più importante e difficile della sua. Lo fa non con le parole, ma con la scritta che porta sulla maglietta che indossa sotto quella viola d’ordinanza. Gracias Dios Nat te amo. Maurito si becca l’ammonizione prevista dal regolamento, ma in quel momento non ha importanza per nessuno. ciò che importa è che lui riesca a stringere la gola del Franchi per la commozione allo stesso modo del suo connazionale di vent’anni prima. I paragoni sono sempre scomodi e pericolosi, ma stasera accostare Mauro Zarate a Gabriel Batistuta è assolutamente lecito. Anzi, è doveroso.
Nat è Nathalie Weber, la bella moglie di Maurito che si è scoperta affetta da uno dei mali del secolo, e che da tutta l’estate ci sta combattendo contro. Suo marito, per starle vicino, ha dovuto saltare praticamente tutta la preparazione estiva e l’avvio di campionato. Lo davano per affranto, con la testa ormai lontana dal pallone, dal suo mestiere.
Eccolo qui invece. Eurogol al 61’, bis al 77’, con una punizione che ricorda quelle che tirava un altro fenomeno viola, Adrian Mutu. O Manuel Rui Costa, se si vuole tornare indietro fino a quelle immagini ingiallite ormai, ma che ci portiamo tutti dentro il portafoglio insieme a quelle dei figli.
Mauro Zarate con la moglie Natalie ed i figli Mia e Rocco
Grazie a tutti per i messaggi e l’affetto che mi dimostrate in questo momento difficile, grazie alla mia famiglia, gli amici e i miei figli che mi danno la forza di andare avanti e soprattutto per la più bella e coraggiosa donna al mondo. Ti amo amore, sei tutta la mia vita”. E’ la dedica finale di Maurito per una serata che lo riconsegna a Firenze come prima, più di prima.
La vita mette a dura prova, a volte. Chi supera queste prove, o comunque sopravvive loro, può dirsi un uomo o una donna decisamente migliore. Zarate Kid e sua moglie Nathalie sembravano due baciati dalla fortuna, calciatore di successo lui, modella di altrettanto successo lei. Adesso scoprono che l’unica vera fortuna è stata esser l’uno al fianco dell’altra, nel momento più difficile.
Lei affronta una convalescenza difficile, come sa chiunque abbia affrontato il suo male. Lui si ritrova con la voglia di spaccare il mondo, e comincia non appena il mister lo rimanda in campo. Firenze assiste estasiata ai suoi eurogol, dopo aver assistito con compostezza al suo dramma nei mesi scorsi. E scopre di voler stare vicino al suo talento, nella buona come nella cattiva sorte.
Forse è tardi per diventare l’erede di quell’altro argentino, quello di vent’anni fa. Ma Maurito è in tempo a scrivere qualche pagina di storia viola. E c’è da scommettere che se aspirerà prima o poi alla cittadinanza di questa città, a definirla anche lui su casa, nessuno si sentirà di negarglielo.
Zarate Kid è tornato, que viva Zarate Kid.

Paolo Valenti, che confessò di essere viola al 90° minuto

Il 15 novembre 1990 se ne andava, in punta di piedi e con lo stile con cui era vissuto, Paolo Valenti, campione di una generazione di giornalisti ormai estinta e tifoso viola sconosciuto agli altri tifosi viola fino al termine della sua vita.
Era nato a Roma nel 1922, ma il suo cuore era viola, avendo lui trascorso l’infanzia a Firenze. Lo avrebbe confessato solo negli ultimi istanti della sua ultima trasmissione in RAI, poco prima di lasciarci per sempre, sconfitto dal male del secolo, il cancro. Alla RAI era entrato nel 1950. Dopo una lunga gavetta fatta di tante tappe del Giro d’Italia, diverse edizioni delle Olimpiadi, gare di automobilismo e pugilato, era stato consacrato alla notorietà dalla telecronaca del leggendario match valevole per il titolo mondiale dei pesi medi tra Nino benvenuti ed Emile Griffith, vinto dal triestino.
Nel 1970 dette vita insieme a Maurizio Barendson e Remo Pascucci alla sua creatura che ha fatto la storia della televisione italiana: quel Novantesimo Minuto che ha fatto compagnia la domenica a generazioni di tifosi fino all’avvento delle pay TV. La gente correva a casa, dopo aver visto la partita allo stadio o averla seguita alla radio con Tutto il calcio minuto per minuto, e a quel punto in religioso silenzio si disponeva a vedere Paolo officiare il rito domenicale della trasmissione di gol, risultati e classifiche.
Nel 1976, con la riforma della RAI che assegnò 90° Minuto al palinsesto della Rete 1, rimase solo a condurre la trasmissione all’interno del contenitore Domenica In, dove lo volle un’altra leggenda della televisione di quegli anni, Corrado Mantoni. Allora Paolo Valenti ebbe un’ulteriore intuizione che trasformò in meglio se possibile una trasmissione già amatissima dagli italiani: la costituzione in ciascuna sede regionale di una redazione alla quale era affidata non solo la trasmissione dei “riflessi filmati” delle partite (come si diceva allora) ma anche il commento tecnico più o meno a caldo di quanto era successo.
Valenti si portò dietro nella storia molti altri colleghi, alcuni dei quali al pari di lui non ci sono più, altri si godono una meritata pensione: Marcello Giannini, Luigi Necco, Tonino Carino, Cesare Castellotti, Giorgio Bubba, Gianni Vasino, Giampiero galeazzi, Piero Pasini, Ferruccio Gard, Emanuele Giacoia e un giovanissimo Lamberto Sposini. Per molti anni Paolo Valenti riuscì a coordinare questo gruppo di talenti offrendo una trasmissione garbata e divertente, un “teatrino” come lo definì lui stesso in cui si dava informazione completa senza mai trascendere circa gli eventi relativi allo sport più amato dagli italiani.
La carriera e la vita di Paolo arrivarono fino a Italia 90, a commento di cui realizzò una trasmissione speciale chiamata Minuto Zero che offrì il suo ultimo contributo al commento di uno spettacolo su cui si stavano affacciando le TV commerciali, che proponevano format sicuramente più innovativi, come quello dell’emergente Alba Parietti, o altri che però complessivamente erano dotati di assai minore aplomb.

Poco dopo, la malattia prevalse e al momento di salutare il suo pubblico per l’ultima volta Paolo Valenti finalmente si concesse un accenno a quella squadra per cui aveva tifato per tutta la vita, senza mai lasciar trapelare nulla che potesse minimamente inficiare la sua enorme professionalità: la Fiorentina. La circostanza fu poi confermata e messa in risalto da Nando Martellini, che lo commemorò a 90° Minuto dopo la sua scomparsa. E dagli stessi tifosi viola che la domenica successiva esposero uno striscione su cui era scritto: Paolo, al 90° l’abbiamo saputo, viola con classe e dignità.

Per esser di Firenze vanto e gloria (Trieste, 6 maggio 1956)



Sarti, Magnini, Cervato, Chiappella, Segato, Rosetta, Montuori, Julinho, Virgili, Prini, Gratton. Lo speaker dello Stadio Comunale di Trieste (il vecchio Littorio, che poi sarebbe stato intitolato a Giuseppe Grezar, uno dei grandi del Grande Torino scomparso a Superga) lesse questa formazione della squadra ospite che quel 6 maggio 1956 scese in campo contro la Triestina.
Non era una partita qualsiasi, alla ventinovesima partita di quel campionato di serie A 1955-56 la Fiorentina si presentava imbattuta da 35 partite. Aveva perso l’ultima volta a Bergamo per 5-1, nel campionato precedente. Poi tutti i pezzi di una macchina da calcio perfetta erano andati a posto. La squadra viola aveva preso il volo, e quel giorno di maggio a Trieste le mancava un punto soltanto per laurearsi campione d’Italia per la prima volta nella sua storia cominciata trent’anni prima.
Segnò Julinho al 42’, il pareggio degli alabardati fu fulmineo, appena due minuti dopo con Sergio Brighenti. Finì 1-1, i viola con cinque giornate d’anticipo chiusero il discorso per quel campionato 1956 riportando lo scudetto a sud dell’Appennino per la prima volta nel dopoguerra. Non contenti, allungarono il proprio record di imbattibilità fino a 40 partite consecutive, vedendoselo interrotto soltanto all’ultima giornata a Marassi a Genova. A un quarto d’ora dalla fine la Fiorentina vinceva 1-0, poi il Genoa ne segnò tre e quel campionato favoloso finì così, con quella minuscola macchia su un affresco che avrebbe mantenuto il suo splendore nei secoli dei secoli.
Artefici di quell’impresa, oltre agli undici cavalieri annunciati quel 6 maggio dallo speaker triestino ed ai loro compagni in panchina Toros, Bartoli, Carpanesi, Mazza, Orzan, Scaramucci e Bizzarri, erano stati principalmente due personaggi. Uno già arcinoto al calcio italiano, l’altro un clamoroso outsider. Quest’ultimo era il presidente Enrico Befani, industriale tessile di Prato con la passione del calcio vissuta in quel di Firenze, che aveva rilevato la squadra viola nel 1951 da Carlo Antonini e dopo un avvio travagliato aveva montato pezzo per pezzo una fuoriserie. Alla guida della quale aveva chiamato un ex enfant prodige romano, Fulvio Bernardini, che da giocatore era stato talmente bravo da costringere Vittorio Pozzo ad escluderlo dalla squadra azzurra campione del mondo nel 1934, perché i compagni non riuscivano a capirlo e stargli dietro.
Da allenatore, Bernardini fu più bravo ancora. Vinse due soli scudetti, ma pesantissimi, ed entrambi al di sotto di quella linea fatidica dell’Appennino: nel 1956 appunto a Firenze, nel 1964 a Bologna. Lo scudetto viola fu un capolavoro impreziosito dalle giocate di alcuni dei più grandi fuoriclasse dell’epoca. Due su tutti: Miguel Angel Montuori, l’oriundo cileno-argentino segnalato a Befani da Padre Volpi un frate missionario talent scout a tempo perso, e soprattutto lui, Julio Botelho detto Julinho. Il primo di una lunga serie di unici 10. Colui che spinse il mister Bernardini ad una definizione leggendaria: “Un’ala può arrivare fino a Julinho. Non oltre".
Come sarebbe successo tredici anni dopo, la chiave di volta del successo viola fu la partita alla quinta giornata contro il Bologna. Diversamente dal secondo scudetto, che prese le mosse dalla frustata subita in casa dai rossoblu per 3-1, il primo decollò invece grazie ad una vittoria in trasferta per 2-0 nel derby dell’Appennino. Fu una marcia trionfale interrotta solo dal gol dell’ex Gunnar Gren a Marassi il 3 giugno, un mese dopo che la Fiorentina si era cucita il suo primo scudetto accanto al giglio in quel di Trieste.
Per la prima volta, i tifosi fiorentini fecero tardi ad attendere la squadra per portarla in trionfo dopo la grande impresa. Per la prima volta, la bandiera che solitamente garriva sulla Torre di Maratona, fu per l’occasione spostata sulla Torre di Arnolfo. La Fiorentina entrava nella storia del calcio stabilendo una serie di record destinati a durare a lungo (quello di imbattibilità fino al 2012, superato dalla Juventus di Antonio Conte) , con il Milan secondo staccato di dodici punti, il capocannoniere Beppe Virgili autore di 21 reti e 20 vittorie su 34 partite di quel campionato.
Come cantava in quegli anni il suo inno interpretato dalla splendida voce di Narciso Parigi, la maglia viola era finalmente di Firenze vanto e gloria.

Una Coppa tinta di viola: gli anni dei sogni infranti

Ugolino Ugolini non era da meno dei suoi due predecessori Befani e Baglini, né come passione né come capacità. Avrebbe anche lui al pari di loro voluto costruire un ciclo vincente e lasciare il suo nome nella storia della Fiorentina insieme a qualche trofeo importante nella bacheca. La sorte gli voltò le spalle ben presto, con la recessione economica che gli tolse capacità di spesa e con la sfortuna che gli tolse alcuni dei frutti più promettenti del vivaio, che costituivano l’ossatura della seconda generazione della linea verde viola.
La sua presidenza in pratica si svolse tra una mancata retrocessione e l’altra. Nel 1971 il “mago” Oronzo Pugliese salvò i reduci di uno scudetto ormai lontano all’ultima giornata, complice l’Inter che condannò la diretta rivale Foggia. Baglini passò la mano a Ugolini, che per sette anni tentò di eguagliare il predecessore, perdendo lungo la strada i pezzi migliori: Guerini, Roggi, Orlandini. Nel 1978 il vecchio soldato Chiappella salvò ancora la patria viola, complice di nuovo l’Inter che condannò di nuovo il Foggia sempre all’ultima giornata. Ugolini passò la mano a due luogotenenti, Melloni e Martellini, e due anni dopo la società ai Pontello.
Tra queste date tanti sogni e tanta sfortuna. Ed un solo trofeo, la Coppa Italia del 1975, arrivata dopo dieci anni di partecipazioni opache. La FIGC aveva deciso, per rendere più interessante la manifestazione, di far disputare il torneo tramite sette gironi all’italiana alle cui qualificate si sarebbe aggiunta la detentrice. Quell’anno si giocavano all’italiana anche quarti e semifinali. La Fiorentina si qualificò a spese di Ternana, Foggia, Palermo ed Alessandria, ed al turno successivo ebbe la meglio su Torino, Roma e Napoli. Dall’altra parte uscì fuori il Milan, vincitore su Juventus, Inter e Bologna.
Il 28 giugno 1975 all’Olimpico di Roma alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, Milan e Fiorentina scesero in campo per la coccarda tricolore. Tra i rossoneri stava giungendo a conclusione la gloriosa carriera del golden boy Gianni Rivera, in cerca delle ultime vittorie da aggiungere ad una lunga serie. Tra i viola cominciava la carriera di colui che sarebbe stato designato come suo successore, che ne aveva preso il posto in Nazionale e che - con iperbole altrettanto immaginifica di quelle con cui il fuoriclasse milanista era stato appellato - era stato definito il ragazzo che giocava guardando le stelle, Giancarlo Antognoni.
Finì 3-2 per la Fiorentina, con reti di Casarsa, Guerini e Rosi, a cui risposero Bigon e l’ex Chiarugi. Il giovane capitano viola alzò la coppa davanti al vecchio capitano rossonero (che si sarebbe rifatto nel 1977 prima di ritirarsi a quasi 40 anni). Superchi, Beatrice, Roggi, Guerini, Pellegrini, Della Martira, Caso, Merlo, Casarsa, Antognoni, Desolati furono gli ultimi giocatori della Fiorentina a portare a casa un trofeo importante prima di un black out che sarebbe durato più di vent’anni. L’anno dopo, il trofeo anglo-italiano e la Mitropa Cup (vecchio cimelio di un calcio che fu) chiusero definitivamente il discorso vittorie prima che si passasse ad occuparsi di altre questioni, tipo la salvezza dalla serie B.
Passarono giorni, mesi, anni, come fogli di un calendario ingiallito ed interminabile. Passò Ugolini, passarono i Pontello, passò Mario Cecchi Gori. Antognoni fu negato alla Juventus, Baggio invece gli fu concesso insieme alle illusioni di vittoria degli anni 80. Arrivò un produttore cinematografico di fama mondiale, un infarto se lo portò via mentre la squadra era in B, finalmente retrocessa soprattutto grazie agli sforzi del figlio del produttore stesso. Il minimo che poteva fare Vittorio Cecchi Gori per ripulire dal fango il labaro di una squadra che era retrocessa una volta sola, nel 1938, era vincere qualcosa.
Nel 1996 la formazione della Fiorentina recitava Toldo, Carnasciali, Padalino, Amoruso, Serena, Schwarz, M. Orlando, Cois, Rui Costa, Baiano, Batistuta. Una delle più forti di sempre, entrata di diritto tra le Sette Sorelle che lottavano stabilmente per scudetto e Champion’s League. In campionato finì terza dietro a Milan e Juventus, in Coppa fu una marcia trionfale. 2-1 ad Ascoli, 5-0 a Lecce, nei quarti Palermo battuto 1-0 in casa e 2-1 in trasferta. In semifinale 3-1 all’Inter al Franchi, al ritorno vittoria 1-0 a San Siro con eurogol di Batistuta, pallonetto in uscita su Pagliuca dopo un contropiede travolgente.
In finale c’era l’Atalanta, che aveva avuto ragione di Juventus, Cagliari e Bologna. All’andata a Firenze ci pensò ancora Batistuta a dare la vittoria ai viola. Al ritorno a Bergamo di tifosi ne andarono tanti, ma molti di più erano quelli che rimasero al Franchi (oltre 30.000 persone secondo le stime) ad aspettare la squadra che tornò nella notte, con la Coppa Italia sul pullman. Amoruso e Batistuta avevano regolato la questione in Lombardia con un 2-0 che valeva la quinta coccarda sulla bandiera viola. Pochi mesi dopo, Batistuta sbancò San Siro assegnando la Supercoppa italiana per la prima volta nella storia alla vincitrice della Coppa contro la vincitrice del campionato.
Quella Fiorentina aveva sangue talmente buono che la sua corsa l’anno seguente si arrestò soltanto in semifinale di Coppa delle Coppe di fronte ad un Barcellona che aveva poco o nulla da invidiare a quello attuale, ma soprattutto grazie ad un arbitro, lo svedese Frisk, che aveva poco o nulla da imparare da Ovrebo. Purtroppo, i conti della società non erano così brillanti come il gioco della squadra, e allora dopo aver sfiorato lo scudetto nel 1999 l’Invencible Armada viola cominciò a dissolversi. Batistuta finì a Roma, Cecchi Gori finì sul banco d’accusa della Co.Vi.Soc.
Come in ogni tragedia greca che si rispetti, agli eroi viola toccò un’ultima grande impresa prima dell’epilogo per mano di un destino infausto. Nel 2001 la Coppa Italia la cominciò Fatih Terim e la finì Roberto Mancini. E la finì alla grande. Negli ottavi i viola si vendicarono della Salerntana e della trappola UEFA del 1998, la bomba carta che dette la vittoria al Grasshoppers. 5-0 a Salerno e 3-1 a Firenze. Nei quarti Brescia battuto 6-0 in casa e 3-1 fuori. In semifinale toccò al Milan chinare il capo, 2-2 a Milano e 2-0 a Firenze, con un Rui Costa che fece di tutto per non far sentire l’assenza di Batistuta segnando due gol.
Toldo, Repka, Adani, Pierini, Moretti, M. Rossi, Amaral, Di Livio, Nuno Gomes, Rui Costa, Chiesa. Toccò a Manuel alzare l’ultima Coppa viola la sera del 13 giugno 2001, dopo il pareggio casalingo per 1-1 con il Parma che sommato alla vittoria per 1-0 in Emilia aveva sancito la sesta vittoria della Fiorentina. Nel 1999 avevano sorriso gli emiliani, 1-1 a casa loro, 2-2 a casa nostra e Coppa all’ex Malesani, malgrado quell’anno la Fiorentina fosse davvero forte, in testa alla classifica del campionato fino alla partenza di Edmundo per il Carnevale di Rio. Stavolta piansero loro, almeno nell’immediato. Perché poco più avanti toccò di nuovo a Firenze, con la messa in mora di Cecchi Gori, la vendita forzata di Rui Costa e Toldo e la rapida discesa nell’abisso del fallimento.

Tredici anni dopo siamo ancora fermi a Manuel Rui Costa che sorride felice accanto alla sig.ra Valeria Cecchi Gori. A quella sesta ed ultima vittoria a cui per ora una nuova proprietà venuta da fuori non ha saputo aggiungere altro. Zero titoli, almeno fino a sabato prossimo. Quest’anno i sogni di gloria in campionato si sono spenti sugli infortuni di Mario Gomez e Giuseppe Rossi, in Europa sulla punizione di Andrea Pirlo. Ma in Coppa siamo alla decima finale, conquistata battendo il Chievo negli ottavi, il Siena nei quarti e l’Udinese nel doppio confronto in semifinale tra i comproprietari di Cuadrado che il 3 maggio all’Olimpico non ci sarà, perché squalificato. Il Napoli arriva favorito, dopo aver eliminato la Roma, anche se con qualche acciacco anch’esso. Ma come si diceva all’inizio in una partita secca ci sta tutto. E il terzo posto nell’Albo d’Oro a pari merito con l’Inter è lì che aspetta. E’ tanto che al labaro viola non viene aggiunto più niente.

Una Coppa tinta di viola: gli anni ruggenti

Quante volte l’abbiamo detto, o sentito dire: “In una partita secca ci può stare di tutto, nel calcio non vincono sempre i più forti”. E’ lo spirito della Coppa Italia, o TIM Cup che dir si voglia da qualche anno a questa parte. Che del resto nacque per questo, quasi cento anni fa. Nel 1922 le società più forti (già allora le stesse di oggi e quasi altrettanto determinate a far prevalere il business sull’aspetto sportivo) fecero uno sgarbo alla Federazione minacciando uno scisma che rese problematica la disputa del campionato 1921-22. La Federazione le ripagò istituendo una competizione in cui le squadre si incontravano in un tabellone ad eliminazione diretta, dentro o fuori da subito. Le favorite potevano essere rimandate a casa in novanta minuti, a giocarsi la Coppa Italia potevano arrivare formazioni provenienti addirittura dalla serie C. Il primo anno in finale arrivarono il Vado Ligure e l’Udinese. I liguri ebbero ragione dei friulani, alla loro prima ed unica apparizione all’atto conclusivo.
Dopo un avvio balbettante, la Coppa fu disputata regolarmente e sistematicamente solo a partire dal 1936, con il regolamento della Coppa d’Inghilterra, incontri ad eliminazione con sorteggio della squadra ospitante e ripetizione in caso di parità a campo invertito. La finale si giocava in campo neutro deciso di volta in volta, la vincitrice si fregiava dello scudetto (per chi trionfava nel campionato c’era la croce sabauda sormontata dal fascio littorio) e partecipava all’unica Coppa Internazionale esistente all’epoca, la Mitropa Cup che vedeva affrontarsi formazioni italiane, austriache, ungheresi, cecoslovacche e svizzere.
In una partita secca ci stava di tutto, si diceva. E spesso è andata così. Prova ne sia che la Fiorentina, che solo di rado è riuscita a fare campionati di vertice e solo due volte è riuscita a vincerli, nell’Albo d’Oro della Coppa Italia figura aver disputato ben nove finali, vincendone sei e posizionandosi al quarto posto assoluto dietro Roma, Juventus ed Inter. Se sabato i viola faranno propria la settima finale raggiungeranno appunto i nerazzurri, se invece a prevalere sarà il Napoli accorcerà le distanze portandosi a cinque successi.
In attesa di sapere cosa riserva il futuro, un breve excursus in un glorioso passato. Che cominciò nel 1939-40, quando la Fiorentina fece la prima apparizione nelle zone alte della classifica ed iscrisse per la prima volta il proprio nome sull’albo d’oro di una competizione. In Coppa i viola fecero fuori il Cavagnaro Genova Sestri Ponente nei sedicesimi, il Milano negli ottavi (1-1 a Milano e 5-0 a Firenze nella ripetizione), la Lazio nei quarti per 4-1, la Juventus in semifinale per 3-0.
In finale i viola furono sorteggiati in casa e lo Stadio Giovanni Berta (come si chiamava allora il Comunale Artemio Franchi) poté assistere al loro trionfo, pochi giorni dopo che l’Italia era entrata nella Seconda Guerra Mondiale, per 1-0 sul Genova 1893 con rete di Celoria al 26’ del primo tempo. Da notare come il Fascismo avesse imposto il cambio di nome a società che erano nate sotto l’egida del calcio britannico. Si salvò la Juventus perché il nome era di origine latina. L’Ambrosiana ex-Inter quell’anno era uscita negli ottavi. I viola trionfatori erano Griffanti, Da Costa, Piccardi, Ellena, Bigogno, Poggi II, Menti II, Morselli, Celoria, Baldini.
Seguirono gli anni della guerra e l’avvio dell’epopea del Grande Torino. Nell’anno in cui cadde il Fascismo, il 1943, i fuoriclasse granata trionfarono sia in campionato che in Coppa. L’anno dopo con l’Italia spaccata in due tra tedeschi ed alleati il campionato fu disputato a pezzi, la Coppa saltò per essere ripresa solo nel 1958. Oltre al periodo d’oro del Torino, questa pausa sacrificò anche buona parte di quello della Fiorentina, che nel 1956 vinse il primo scudetto e nei quattro anni successivi arrivò seconda.
Quando per riempire il vuoto lasciato dalla mancata qualificazione ai Mondiali del 1958 la Federazione rilanciò proprio la Coppa Italia, fu proprio la Fiorentina a disputare la prima finale, e a perderla contro la Lazio a Roma. I viola erano fortissimi, alcuni di loro erano ancora quelli del primo scudetto, ma venivano da un campionato estenuante lasciato nelle mani del Milan proprio all’ultimo tuffo, e a detta di molti Sarti, Robotti, Castelletti, Chiappella, Cervato, Segato, Hamrin, Lojacono, Montuori, Gratton, Morosi non sentirono abbastanza l’impegno.
Lo sentirono senz’altro di più due anni dopo, quando in finale affrontarono a San Siro la Juventus a cui avevano appena lasciato il titolo di campione d’Italia, finendo secondi per la quarta volta. I bianconeri erano già visti come avversari “particolari” dai tifosi viola, anche se la rivalità era solo agli albori. Sarti, Robotti, Castelletti, Micheli, Orzan, Marchesi, Hamrin, Montuori, Da Costa, Milan, Petris cedettero 3-2 dopo i tempi supplementari alla Juventus in cui tirava gli ultimi calci Boniperti e facevano faville campioni come Charles e Sivori. I viola si consolarono bene, tuttavia, finendo qualificati di diritto alla prima edizione della Coppa delle Coppe, che vinsero l’anno dopo con l’impresa di Ibrox Park. La Juventus in compenso aveva fatto l’accoppiata campionato e coppa che fino ad allora era riuscita solo al Grande Torino.
Fiorentina 1960-61 i "leoni di Ibrox"
L’anno dopo, 1960-61, fu la Fiorentina a fare l’accoppiata, aggiungendo la seconda Coppa Italia della sua storia alla Coppa delle Coppe, primo storico trofeo internazionale vinto nel dopoguerra da una squadra italiana insieme alla Coppa delle Fiere (in seguito Coppa UEFA e poi Europa League) vinta dalla Roma quello stesso anno. I viola Albertosi, Robotti, Castelletti, Gonfiantini, Orzan, Marchesi, Hamrin., Micheli, Da Costa, Milan, Petris si vendicarono della Juventus in semifinale sconfiggendola 3-1, e poi nella finale - sorteggiata a Firenze - della Lazio, battuta per 2-0.
Per ritrovare la Fiorentina in finale bisognò poi attendere il 1965-66 ed una nuova generazione, quella ye-ye che avrebbe portato tre anni dopo al secondo scudetto. Albertosi, Pirovano, Rogora, Bertini, Ferrante, Brizi, Hamrin, Merlo, Brugnera, De Sisti, Chiarugi fecero fuori Palermo, Catania, Milan ed Inter, per trovare in finale un sorprendente Catanzaro, autore di autentiche prodezze contro Napoli, Lazio e Torino e capace di eliminare in semifinale la Juventus addirittura in trasferta a Torino. A Roma, dove da allora si sarebbero giocate tutte le finali in quanto capitale, il Catanzaro dette del filo da torcere anche ai viola, che andarono in vantaggio con Hamrin e furono raggiunti da Pippo Marchioro. Segnò il gol della vittoria Bertini su rigore al 1’ minuto del secondo tempo supplementare.

Era la terza Coppa. Poi lo scudetto, poi ancora anni difficili e l’avvio di una nuova generazione ye-ye, che nei piani di Ugolino Ugolini avrebbe dovuto allungare la serie di vittorie. Ma non sarebbe andata così.

10 volte Real, e un po' di Fiorentina

Real Madrid sul tetto d’Europa. La sospirata “decima” è arrivata, anche se con gran fatica. Al 92’ era campione l’Atletico, dopo la papera di Iker Casillas. Al 93’ il pareggio di Sergio Ramos, quando forse nessuno dei merengues ci credeva più. Poi ai supplementari ha vinto chi aveva ancora un pizzico di fiato e di classe da spendere. Bale, Marcelo e Cristiano Ronaldo ce li hanno solo i blancos, e in questo momento fanno la differenza.
Real Madrid più leader che mai in Europa, dunque, con le sue 10 Champions’ vinte, o Coppe dei Campioni come si chiamavano una volta. Primo posto in solitario, con il Milan staccato di 3 lunghezze, Bayern e Liverpool di 5, Barcellona e Ajax di 6. Spagna ancora in festa, la finale è stata un derby iberico, i campioni del mondo tutt’ora in carica collezionano il quattordicesimo trofeo continentale, staccando di 2 lunghezze Italia ed Inghilterra.
La storia del calcio ormai si fa lontano dalla nostra penisola, a livello di Nazionali come di Club. Eppure era cominciata qui. La Coppa con le orecchie fu istituita nel 1956, le prime cinque edizioni consecutive le vinse – manco a dirlo – proprio il Real, alla seconda ed alla terza battendo proprio due squadre italiane, nel 1957 la Fiorentina e nel 1958 il Milan. Con sofferenza e con fatica: contro i gigliati a venti minuti dalla fine il risultato fu sbloccato da un rigore inesistente fischiato dall’arbitro olandese Leopold Sylvain Horn per fallo di Magnini su Mateos, ampiamente fuori area. L’anno dopo i rossoneri portarono i fortissimi merengues ai supplementari, prima di cedere per 3-2.
Di Stefano trasforma il rigore battendo Sarti
La Fiorentina fu la prima squadra italiana a raggiungere una finale europea in assoluto. Nel 1957 veniva dalla trionfale stagione del primo scudetto e da una difesa onorevolissima del titolo contro il Milan, dietro cui era arrivata seconda. In Coppa, aveva superato il Norkoepping, il Grasshoppers e la Stella Rossa di Belgrado. Il Real, detentore della coppa conquistata l’anno prima al Parco dei Principi di Parigi contro lo Stade Reims nella prima edizione, aveva superato Rapid Vienna, Nizza e Manchester United. Entrambe le squadre erano teste di serie, esentate pertanto dai turni preliminari.
Per quella finale scesero in campo da una parte Juan Alonso Adelarpe, Manuel Torres, Marquitos, Rafael Lesmes, Miguel Munoz, José Maria Zarraga, Raymond Kopa, Enrique Mateos, Alfredo Di Stefano, Hector Rial, Francisco Gento. Dall’altra Sarti, Magnini, Cervato, Orzan, Scaramucci, Segato, Julinho, Gratton, Virgili, Montuori, Bizzarri. Tra i viola spiccava l’assenza di Beppe Chiappella, il regista della difesa, infortunatosi durante una partita della Nazionale. Il luogo della finale era il Santiago Bernabeu di Madrid, il Real giocava in casa. Era il 30 maggio 1957.
Giuliano Sarti, leggendario portiere viola di quegli anni, ha raccontato il clima di quella storica partita: «Più che una partita, una corrida. Centomila spettatori contro di noi. Ma resistemmo, fino a pochi minuti dalla fine. Un rigore per un fallo commesso cinque metri fuori dall’area». I blancos erano fortissimi, probabilmente in quel momento la squadra più forte del mondo, con Di Stefano e Gento - che segnò il raddoppio madridista cinque minuti dopo il rigore - fuoriclasse inarrivabili. Ma i viola non erano poi da meno, e senza la svista di Horn chissà come sarebbe andata a finire. Forse come ieri sera? Chissà.
Il gagliardetto viola al Museo del Real Madrid

In ogni caso, resta alla Fiorentina l’onore di aver portato per prima in Europa il proprio gagliardetto in una finale, quel gagliardetto che è conservato adesso nel Museo del Bernabeu. E di essere stata, tra le dieci contendenti del Real, una di quelle che hanno meglio figurato.

Un lungo sogno viola

Un bambino sviluppa i primi ricordi duraturi intorno ai cinque-sei anni. E infatti, se ci penso bene, nel primo ricordo che ho della mia infanzia ero allo stadio, con mio padre. Fiorentina-Roma, finì  2-2,  seppi  dopo  dai
discorsi del babbo che avevo assistito a una delle più belle partite mai giocate da quella che, senza possibilità di dubbio, era la mia squadra del cuore. Ero nato, ero stato battezzato, ero stato registrato all'anagrafe, e mi ero ritrovato arruolato in forza all'esercito viola. Non era ammessa discussione, non a Firenze, né allora né poi.
Due anni dopo, ricordi un po' più nitidi, comunque indelebili. Ero un bambino di otto anni, tenevo per mano il babbo alle Cascine, nell'altra mano lui aveva la radiolina che trasmetteva Tutto il calcio minuto per minuto. L'11 maggio 1969 si giocava la penultima giornata di campionato. La Fiorentina era in testa, giocava a Torino contro la Juventus. Quando la voce del cronista scandì "la Fiorentina è campione d'Italia", la radio volò via dalla mano di mio padre, il parco e tutta Firenze diventarono una festa di gente che rideva e festeggiava felice, come tanti bambini. Io, che bambino lo ero davvero, ebbi la vita segnata per sempre, come la Cresima dopo il Battesimo. La conferma consapevole del mio destino. Quel giorno mi fu consegnata una bandierina viola (che rimase appesa al balcone di casa mia per un anno intero). Ancora non sapevo, ma l'avrei capito presto, che la squadra sconfitta quel giorno sarebbe stata l'avversario da combattere nel resto della vita, per tornare un giorno a sentire di nuovo quella voce che annunciava la più grande delle vittorie.
Il tempo è volato via. Ero un adolescente quando Desolati mise a sedere Dino Zoff e depositò nella porta vuota il gol della vittoria contro una Juventus che era diventata fortissima, forse la più forte di sempre. Noi non lo eravamo più, ma contro i bianconeri tiravamo sempre fuori anche quello che non avevamo. "Per esser di Firenze vanto e gloria", questo chiedeva la città quando scendeva da queste parti la squadra che ancora nessuno odiava ma che tutti già allora detestavano.
Ero ancora un po' più adolescente quando la Juventus venne a cercare il punto del matematico scudetto alla penultima giornata, era il 1975. Prese quattro gol, Antognoni, Casarsa, Caso e un'autorete di Zoff rimandarono la festa dei gobbi e inorgoglirono una città che credeva di aver trovato una nuova generazione ye-ye, e che invece avrebbe poi perso quasi tutti i suoi pezzi migliori tra infortuni e vicende avverse.
Ero appena maggiorenne quando Alessio Tendi tirò una di quelle fiammate dalla tre-quarti che Zoff sentì solo lo schiocco della palla sul palo e poi in rete. Poco prima aveva "sforbiciato" Sacchetti, la rete di "penna bianca" Bettega alla fine fu inutile, la befana del 1980 fu un'altra festa viola. Il peggio era passato, Agnelli aveva tentato di prendersi Antognoni, Ugolini aveva resistito, Pontello era alle porte e la Juventus da queste parti a passeggiare non ci veniva più (se mai c'era venuta).
Ero un uomo fatto quando Pontello dette l'assalto al potere bianconero. Mancò la fortuna, non il valore. Antognoni si fece male due volte, dopo il mancato spareggio del 1982 (in cui l'arbitro Mattei si sostituì al portiere del Cagliari) riuscì a giocare solo un'ultima splendida partita contro Platini & C., segnando addirittura di testa. Finì 3-3 e fu la più bella partita contro la Juve (e forse in assoluto) che io ricordi. Bertoni giocò come non aveva mai fatto, fulminando Tacconi due volte. Toccò al povero Contratto segnare l'autorete che rese imperfetta quella gara memorabile.
Quando Daniel Passarella portò la Fiorentina a trionfare sul campo dei gobbi per la prima volta dall'ultimo scudetto, ero in partenza per il servizio militare e me la godetti poco. L'anno dopo, quando il Caudillo firmò un'altra vittoria casalinga insieme a Berti (che ancora non faceva panini) non avevo ancora finito. Mi persi così l'addio di Antognoni e i primi calci di Roberto Baggio. La fine del mio servizio in compenso coincise con la fine dei sogni di gloria dei Pontello, che lasciarono andar via Passarella, Giovanni Galli ed altri. Trovarono comunque Dunga, che con Baggino, Diaz e poi il povero Stefano Borgonovo misero su alcune rappresentazioni niente male. Vittime predestinate proprio i bianconeri, che a loro volta avevano i loro problemi a sostituire la generazione dei campioni del mondo di Spagna.
Nel 1988 Baggio firmò un altro successo in quel di Torino, senza ancora lontanamente immaginarsi che quello che stavano costruendo a due passi dal Comunale nel capoluogo piemontese sarebbe diventato il suo stadio, il Delle Alpi, dove la Fiorentina era destinata peraltro a non raccattare più niente. Ma prima di questo il destino riservava ai viola targati Pontello un'ultima apoteosi. Lavoravo da poco quando Baggio andò a battere quel calcio d'angolo al 90°. In piena area juventina aspettava il cross Borgonovo, che non tradì le attese. Un'altra vittoria memorabile, poi il crollo.
Un anno dopo, la Juve ci malmenò nella finale di andata della Coppa UEFA a Torino, complice un arbitraggio casalingo e un Baggio che forse sapeva già di essere oggetto di trattativa con i nostri avversari. Al ritorno, una Fiorentina avvilita andò a giocare “in casa” ad Avellino. Come per gli israeliani giocare a Gaza, o per i palestinesi giocare a Tel Aviv. Addio Coppa e addio Baggio, venduto tra le due finali ma ufficializzato solo al ritorno dall'Irpinia. A Piazza Savonarola l'aria fumò per diverso tempo a causa dei lacrimogeni lanciati dalla polizia per sedare la furibonda rivolta del popolo viola. Pontello vendette a Cecchi Gori, la Nazionale perse Firenze per diverse generazioni a venire. Per la Juventus non c'era altro che odio in città dal 1982. Dopo il 1990 quell'odio diventò mortale.

Ero dentro la coreografia della Curva Fiesole trasformata nel panorama di Firenze nel 1991, quando Baggio rifiutò di tirarci contro il rigore e Mareggini lo parò a De Agostini. Aveva segnato Fuser, vendetta tremenda vendetta, Baggio raccolse addirittura una sciarpa viola e, pur vestito di bianconero, se la portò al cuore uscendo dal campo.
L'anno dopo un nuovo supereroe arrivò a sconfiggere l'armata delle tenebre. Cominciò l'epopea di Gabriel Batistuta, 92, 93, 97, 98, quante ne buscarono i gobbi, il Re Leone non perdonava e ci volle il suo infortunio per fermare l'ultima corsa viola verso lo scudetto, l'anno dell'ultima vittoria in casa prima di Pepito. Nel frattempo era nato mio figlio, un altro bambino a cui mettere in mano la bandierina viola, a cui far succhiare latte viola, a cui passare il testimone dell'attesa di un nuovo trionfo, se non sarà dato di vederlo a me.
Lunghi anni trascorsi nella risalita dall'abisso e nella ricostruzione di una Fiorentina vincente. Con una sola gioia. A Torino nel 2008 Daniel Osvaldo sulle note di Rita Pavone sbancò il Delle Alpi, dove non avevamo ancora fatto un punto in 18 anni. Poi Gilardino, Pazzini, Luca Toni e altri assalti senza fortuna, vittorie che diventavano pareggi negli ultimi minuti o sconfitte deprimenti che a volte diventavano raccapriccianti, come quella del 2012 a cui nessuno vuole più ripensare (e forse finalmente dopo le fucilate di Giuseppe Rossi e Joaquin Sanchez Rodriguez ci riusciremo).
Pepito non lo sa, ma c'era molto di più della sua rabbia personale nella forza con cui ha calciato in porta – sospinto da uno stadio intero – quella domenica pomeriggio in cui ha battuto per tre volte il povero Buffon. C'era tutta la rabbia di 40 anni miei e di tutta una generazione che ha visto il suo sogno invecchiare di pari passo con la propria età. Quel bambino del 1969 sente che di tempo davanti a sé per rivedere di nuovo lo scudetto accanto al giglio sulle maglie viola ne ha sempre meno, il più ormai è alle spalle. Il bambino del 1993 nel frattempo è diventato un uomo e aspetta la sua prima vittoria senza neanche sapere come può essere fatta. La sera del 4-2 era ancora più incredulo di me.
Un lungo, sofferente e dolcissimo sogno viola, può condividerlo e capirlo soltanto chi è nato qui o comunque ha adottato questa città ed il suo labaro. Titoli di coda che (per ora) scorrono sulle immagini di Giuseppe Rossi, Borja Valero, Cuadrado, Joaquin, Neto, Della Valle grande e Della Valle piccolo e la bolgia del Franchi in delirio, tutti che abbracciano tutti. Con la voce fuori campo di Sean Connery – Mohamed El Raisuli che nelle scene finali de Il Vento e il Leone di John Milius tenta di spiegare al Presidente americano Theodore Roosevelt che cos'è l'appartenenza. E come tanti tifosi della Juve che storcono la bocca indignati e disgustati dal disprezzo viola, il Presidente fatalmente non può capire.

"Tu sei il Vento e io sono il Leone. Io, come il leone, so bene qual è il mio posto. Tu, come il Vento, non sai mai qual è il tuo".

Intervista a Silvia Berti: «Io volevo vincere»



Silvia Berti, per i pochi che ancora non lo sapessero o per chi non lo ricorda, è stata per sette anni l’Addetta Stampa della Fiorentina dei Della Valle, dagli inizi nel 2002 fino al 2009. In realtà, è stata anche qualcosa di più. E’ stata la donna che ha costruito dal niente l’immagine positiva che la Fiorentina ha avuto in quegli anni ed il capitale di simpatia che ha potuto spendere.
Di lei, Ranieri Pontello ha detto, «L’unica cosa che invidio ai Della Valle, che io non avevo, è Silvia Berti». In questa giornata in cui si celebra la Festa della Donna, alla Fiorentina di Diego e Andrea Della Valle che sta vivendo il momento più difficile della stagione manca forse anche una come lei, esperta di comunicazione.
In questa intervista che mi rilasciò quasi quattro anni fa, in occasione di uno dei compleanni della Fiorentina il 29 agosto 2012, ha raccontato dal suo punto di vista quei giorni di dieci anni prima, quando cambiò la vita di Firenze, e anche la sua.
Buongiorno Silvia, grazie per aver accettato di rispondere alle mie domande. Allora, come avvenne il tuo incontro con il destino?
«La Famiglia Della Valle ha acquisito la Fiorentina il 2 agosto del 2002 dopo il fallimento della Società AC Fiorentina di Vittorio Cecchi Gori. Al nuovo Club fu dato il nome di Florentia Viola per evitare legami con il precedente e il rischio di ereditarne i debiti. In quel periodo vivevo a Roma e collaboravo con alcune aziende per l’organizzazione di eventi di pubbliche relazioni. Essendo tifosa da sempre, conoscendo Diego Della Valle da alcuni anni, ed avendo un rapporto d’amicizia con il cugino Oscar Micucci (responsabile ufficio stampa e comunicazione del Gruppo Tod’s, nel frattempo scomparso) il 27 di agosto andai nella loro sede di Milano in Corso Venezia, come peraltro facevo spesso, per salutare e congratularmi per la loro nuova avventura a Firenze. Chiacchierando del più e del meno, Micucci mi disse: perché non ci dai una mano? Subito fui lusingata, ma obiettai che non conoscevo per niente il mondo del calcio e non sapevo se sarei stata all’altezza. Mi rispose che, essendo la squadra in C2, secondo lui me la sarai cavata benissimo e che mi avrebbe organizzato un incontro con i Della Valle».
Micucci ti conosceva bene. Ai Della Valle mancavano molte cose, dati i tempi ristretti. Che successe dopo?
«L’appuntamento venne fissato per il 30 settembre alle 12h00. Erano presenti Diego e Andrea Della
Valle e Micucci. Durò circa un’ora, e parlammo in modo generale della mia storia professionale e specificai che avevo dei contratti attivi e non avrei potuto impegnarmi a tempo pieno. Si dimostrarono disponibilissimi anche perché non avevano intenzione per il momento di investire molto, da un punto di vista economico, in un ufficio stampa per una società militante in una categoria minore. Rimanemmo d’accordo che si sarebbero fatti sentire al più presto».
E lo fecero, ovviamente?
«Non ho più sentito nessuno fino a martedì 22 ottobre quando mi chiamò Gino Salica, che a quel tempo era il Presidente della Florentia Viola e mi fissò un appuntamento per giovedì 24 ottobre a Firenze, presso lo Stadio».
Dove aveva sede la nuova società. Cosa trovasti?
«Quando arrivai rimasi sorpresa dal nulla che trovai: una stanzina con un tavolo e 4 sedie con un computer portatile e un telefono. Quella era la sede, e il povero Salica, da Presidente, si occupava di tutto, dalle magliette per gli allenamenti alla ricerca di sponsor, all’organizzazione delle trasferte. La squadra, allenata da Pietro Vierchwood, era in ritiro punitivo a Massa Marittima perché i risultati sportivi stentavano ad arrivare. Salica non mi dedicò molto tempo: mi supplicò invece di arrivare al più presto perché lui non riusciva a fare tutto, e la pressione dei media era notevole. Espressi anche a lui le mie perplessità e rimanemmo d’accordo che sarei andata a vedere la partita la domenica successiva (Grosseto-Florentia Viola del 27 ottobre) per rendermi conto dell’ambiente. Mi feci accreditare da amici (non volevo coinvolgermi subito con la Società, visto che non ero sicurissima di volere accettare), e andai a vedere la partita a Grosseto».
Come fu il tuo impatto con il mondo del calcio giocato?
«Trovai una disorganizzazione totale. La squadra perse, e ci fu una contestazione da parte di tifosi. Non riuscii a vedere Salica e me ne tornai a Roma abbastanza sconsolata e sempre meno sicura di ciò che facevo. Il giorno dopo mi richiamò Salica scusandosi per non essersi occupato di me il giorno precedente, e mi chiese di andare l’indomani a Firenze per parlare seriamente. Presi il treno da Roma la mattina e intorno alle 10h00 arrivai allo Stadio».
Quello è stato probabilmente il momento peggiore della Florentia Viola. Arrivasti nell’occhio del ciclone.
«Trovai un centinaio di persone davanti ai cancelli. Alcuni erano tifosi, ma molti erano giornalisti che avrebbero voluto delle spiegazioni dalla Società sui motivi degli insuccessi della squadra. Un po’ spaventata entrai nella sede dove Salica, in forte stato di agitazione, mi chiese se potevo fare un comunicato stampa per esonerare l’allenatore. Gli risposi che non ero poi così tanto sicura di voler restare. “Fammi un favore personale” mi disse, e io non ho potuto rifiutarmi. Mi ricordo il foglio bianco e il non sapere che scrivere, tanto che chiamai il mio amico Marco Cherubini: “come si fa un comunicato di calcio”? e lui rispose “due righe”, e io scrissi due righe. Dopo l’approvazione di Salica e di Diego Della Valle, che lo volle per fax, ne feci una cinquantina di copie e lo distribuii fuori dal cancello dove avevo visto la folla. A quel punto molti capirono che era arrivata l’addetto stampa, e io capii che era cominciata la mia avventura».
Diego Della Valle approvava tutto di persona?
«Si».
Scelse bene, allora: tu, Gino Salica, Giovanni Galli... e nello spazio di un mattino. Ma la squadra era in crisi. Doveste prendere delle decisioni in un tempo altrettanto breve.
«Questo intorno alle 12:30. Dopo poco, Salica sempre più agitato, mi disse "presto, presto, dobbiamo andare a Bologna”. Senza un commento salii in macchina e mi ritrovai in un albergo di Bologna a discutere degli aspetti contrattuali del nuovo allenatore, Alberto Cavasin, con Diego della Valle e Salica».
Diego della Valle in persona?
«Si. Mi fecero fare un nuovo comunicato che inviai dall’albergo (meno male che avevo con me la mailing che mi aveva dato l’unica segretaria che c’era a Firenze, Gabriella ) e convocai per le ore 18:00 presso lo Stadio la conferenza stampa di presentazione del nuovo allenatore. Ritornammo a Firenze giusto in tempo. Così organizzai la mia prima conferenza alla presenza di non meno di 50/60 giornalisti. Alle 20:30 finalmente ripresi il treno per Roma, frastornata e confusa. Quella era stata la mia prima giornata, densa d’avvenimenti, di urgenze di emozioni, alla Fiorentina, e moltissime ne sono seguite, sempre caratterizzate dalla stessa intensità».
Chi ti conosce, sa che hai vissuto a “100 all’ora” (per dirla con Gianni Morandi) la tua avventura alla Fiorentina da quel momento fino all’ultimo giorno. Perché? Cosa aveva quel gruppo che spingeva tutti a dare il massimo?
«Ciò che mi ha sempre spinto è stato il mio amore per la Fiorentina. L’essere tifosissima mi ha portato a pretendere sempre di più da me stessa per fare una grande Fiorentina. Io volevo vincere. Io volevo la mia squadra sul tetto del mondo. Non volevo più sentire: prima le grandi poi la Fiorentina e le altre. Prima la Fiorentina poi le altre! Questo è stato e sarà il mio sogno».
Come si arriva da quei giorni fino a quello in cui abbracciasti Cesare Prandelli allo stadio Franchi per la qualificazione alla Campion’s League, il giorno che Osvaldo segnò una delle più belle rovesciate di tutti i tempi?
«Con il lavoro, la passione e la convinzione di fare la cosa giusta. Ma l’energia per andare avanti ogni giorno, me l’ha sempre data la gente del Franchi».

Federico che gioca guardando le stelle

Era l’anno di grazia 2012. Mi ricordo che un giorno mio figlio tornò a casa da scuola con una “liberatoria” da firmare. Una nota emittente televisiva aveva intenzione di mandare una troupe a realizzare un servizio su una giovane promessa del vivaio della Fiorentina, un ragazzo di diciott’anni che frequentava quella scuola superiore in un’altra sezione rispetto a mio figlio, e di cui si cominciava già a dire un gran bene, almeno tra i genitori che pretendevano di intendersi di calcio.
Firmai quella liberatoria, che scaricava la scuola di ogni responsabilità relativa alla privacy, e dimenticai la faccenda. Almeno fino a che, passata la maturità e trascorso l’anno successivo in prestito al Crotone, quel ragazzino fece ritorno alla casa madre, la Fiorentina, e cominciò subito a far parlare di sé alla corte di mister Vincenzo Montella, per quanto essa fosse allora frequentata da fior di campioni.
Federico Bernardeschi riportava dalla Calabria 12 gol in 39 presenze, ma soprattutto la sensazione data agli addetti ai lavori e agli aficionados di essere una delle più consistenti promesse del calcio italiano. A Firenze esordì subito in serie A, alla seconda di campionato, disputando quasi un tempo nella sfortunata partita interna con il Genoa, giocata ad una porta sola - quella rossoblu - ma conclusa senza reti.
Andò meglio quattro giorni dopo, sempre al Franchi contro il Guingamp in Europa League. Federico segnò il primo gol da adulto in maglia viola. Da ragazzino nelle Giovanili tra il 2003 ed il 2013 ne aveva già segnati una quantità notevole. Da valore aggiunto di una Fiorentina che quell’anno puntava in alto, si ripeté quindici giorni dopo contro la Dinamo Minsk.
Insieme a Babacar, detto Baba, il Berna era la prova lampante che il vivaio viola – una volta invidiato in tutta Italia per la sua prolificità – aveva ricominciato finalmente a produrre talenti. E la prima squadra, che si trovava improvvisamente a corto di attaccanti per il simultaneo venir meno di Giuseppe Rossi e Mario Gomez, aveva non una ma due ancore di salvataggio fabbricate in casa.
In una città da sempre alla disperata ricerca di artisti da eleggere a propri idoli, era inevitabile che simili esordi facessero serpeggiare, a voce neanche tanto sommessa, un nome che veniva da lontano, dall’alto, dal desiderio di vedere un miracolo ripetersi: Antognoni.
L’unico 10 aveva esordito a 18 anni con il numero 8 sulle spalle 42 anni prima in circostanze analoghe, una squalifica di De Sisti. Il ragazzino buttato dentro con il numero 29 da un Montella a corto di soluzioni offensive per infortuni e squalifiche faceva di nuovo sperare una intera città che di sperare ne aveva tanta, ma tanta voglia.
Ma siccome in casa viola quando piove lo fa sempre sul bagnato, ecco Federico farsi male in allenamento a novembre, quando la fiorentina era ancora in una fase di classifica interlocutoria. La diagnosi fu subito infausta: frattura scomposta del malleolo. Operato d’urgenza, la prognosi altrettanto infausta: cinque mesi fuori. Campionato finito.
I sogni riprensero a volare ad alta quota nell’estate 2015. C’era un nuovo allenatore sulla panchina viola. Si chiamava e si chiama Paulo Sousa, ed aveva idee ben precise tra chi è da Fiorentina e chi no, chi è un campione di sicuro affidamento e chi no. Se aveva qualche dubbio, non riguardava certo Federico Bernardeschi, che al raduno estivo si vide consegnare la maglia più pesante che c’è: la numero 10. A nessuno parve una bestemmia. Dopo Antognoni, era toccata a Baggio, Rui Costa, Mutu. Nessuno obbiettò che a questa galleria da corridoio vasariano venisse aggiunto il ritratto del ragazzino di Carrara.
Il gol al Barcellona
Il problema semmai era che un Sousa a corto di esterni dopo la repentina dipartita di Joaquin Sanchez Rodriguez fu costretto a inventarselo sulla fascia destra. Federico il talento ce l’ha, ma era costretto a limitarlo negli spazi angusti (e spesso raddoppiati) lungo l’out. Raramente riusciva ad esplodere in tutto il suo talento e la sua potenza fisica, che non è inferiore. Dopo alcune fasi iniziali incerte e qualche urlaccio del mister, diventò comunque titolare fisso e nessuno lo smosse più. Neanche quando a ridosso delle vacanze di natale mostrò di aver bisogno di ritirare un po’ il fiato.
Nel frattempo, è diventato titolare anche della nazionale Under 21 di Gigi Di Biagio, e sempre più spesso ad assistere alle sue performances si è notato il commissario tecnico della Nazionale maggiore, Antonio Conte, anche lui alla disperata ricerca di talenti per non sfigurare all’Europeo di Francia. Per imporsi definitivamente, gli mancavano solo i gol. Ne aveva segnati un paio ad agosto nella prestigiosa amichevole contro il Barcellona (che da allora, ahimé, gli ha messo addosso occhi dallo sguardo insistente), ma vuoi mettere quelli che vengono registrati sullo score di partite ufficiali?
A Basilea a novembre nella partita decisiva per il passaggio del turno di Europa League aveva segnato una doppietta ancora più pesante di quella che aveva steso i Blaugrana. Il primo gol in campionato è arrivato a Bologna il 6 febbraio con un colpo da giocatore di biliardo, in una partita che la Fiorentina avrebbe potuto vincere se qualche suo compagno non avesse vanificato scelleratamente la sua prodezza.
Pochi giorni dopo, Federico festeggia i suoi primi 22 anni. La sua storia, e chissà, la sua leggenda, sono ancora tutte da scrivere mentre soffia per spegnere le candeline della torta che una tifosa gli porge mentre esce dal centro sportivo. Nell’ultima gara di campionato contro l’Inter Federico è stato devastante, impressionante, contribuendo alla vittoria della propria squadra al 91’ come pochi altri. Berna e Baba sono tornati forse ad essere il miglior futuro di questa Fiorentina.
Ma soprattutto, la voce del popolo tifoso tornato a sognare ha ripreso ad accostarlo a nomi che sembravano impronunciabili, senza tema di proferire eresie. Se Antognoni non era sufficiente, qualcuno adesso lo paragona nientemeno che al Profeta del Gol. A quel numero 14 degli Orange, Johann Cruyff, che incantò perdutamente il mondo quarant’anni fa. E, sia consentito dirlo ad un cronista ormai un po’ in là con gli anni che ne ha viste tante e sentite ancor di più, anche questa non pare affatto una bestemmia.
Tanti auguri Federico. Con la speranza che i prossimi compleanni tu li festeggi ancora qui. Dove puoi giocare guardando le stelle.

Picchio e il Secco



E’ come mangiare caviale e champagne tutti i giorni, dopo non ti piace più niente, per quanto sia stato cucinato bene. Ci sono due numeri di maglia che a Firenze eccitano la fantasia dei tifosi, i quali li ritengono destinati soltanto ai migliori, altrimenti tanto vale ritirarli piuttosto che affidarli a giocatori qualunque: il 9 e il 10. Il numero del centravanti è stato spesso sulla schiena di grandi campioni, a volte addirittura campioni del mondo, fin dai tempi di Petrone, l’uruguaiano iridato nel 1930 e giunto in riva all’Arno pochi anni dopo la nascita della A.C. Fiorentina. Poi è stata la volta di tanti fuoriclasse, da Virgili a Luca Toni, passando per Ciccio Graziani ed il Re Leone, Omar Gabriel Batistuta,. Come si vede, difficile riabituarsi ai comuni mortali.
Ma è con il numero 10 che a Firenze si sconfina nel sacro, e non si tollera il profano. Quando il povero Ruben Olivera qualche anno fa fu gratificato della maglia che una volta si dava all’interno sinistro (e poi al trequartista) da un incauto Sinisa Mihajlovic, mal gliene incolse. Ma come! La maglia appartenuta ad Antognoni, a Baggio, a Rui Costa! Ma ritiriamola piuttosto, come fece il Santos con la maglia di Pelé! Un po’ meglio è andata ultimamente, Federico Bernardeschi promette di entrare nel cuore dei tifosi, essendo dotato della classe e della personalità giuste. Ma insomma, il 10 è un numero con cui non vale la pena di scherzare, da queste parti.
La colpa di tutto questo è stata sua, per cominciare. Fu il primo a rendere leggendaria la maglia viola n. 10. Julinho, il non plus ultra secondo Bernardini che lo aveva allenato, aveva avuto il n. 8, il 10 era di Montuori che però era un puntero. Invece Giancarlo De Sisti (foto a sinistra), nato a Roma il 13 marzo 1943, fu il primo dei numeri 10 viola a giocare guardando le stelle. Era un giocatore di una classe immensa, straordinaria. Uno che – dicevano - sbagliava un passaggio smarcante (o assist, come si dice adesso) in tutto il campionato.
A Roma era nato e a Roma aveva esordito (coté giallorosso) a soli 17 anni in serie A, nella stagione in cui la Roma avrebbe vinto la Coppa delle Fiere (o Coppa Uefa, come fu chiamata in seguito, o Europa League, come la chiamano adesso), doppiando il successo internazionale di un’altra squadra italiana che era nel destino di Giancarlo, anche se allora lui non lo sapeva: la Fiorentina, fresca vincitrice della Coppa delle Coppe. Quella stessa Fiorentina a cui segnò la prima rete della sua carriera, l’1-0 con cui la Roma vinse all’Olimpico nel 1962. I tifosi romanisti lo chiamavano trottola. Inizialmente chiuso dal grande campione al tramonto Schiaffino, dopo il ritiro di quest’ultimo De Sisti divenne titolare fisso tra i capitolini. In tre anni 87 presenze e 13 reti. Insomma, un giocatore da tenersi stretto, per la sua classe e per i suoi numeri in campo prima ancora che per i suoi numeri statistici.
Invece, come le sarebbe accaduto anche in epoche successive, la A.S. Roma di quegli anni era una società in gravi difficoltà economiche (molti tifosi, alcuni anche molto potenti, ma pochi disposti a spendere) e ogni anno doveva privarsi di un pezzo pregiato per pagare i debiti. Nell’estate del 1965 toccò a De Sisti. A Firenze si era appena insediato un presidente abile ed ambizioso, Nello Baglini, che voleva vincere e voleva però farlo tenendo il bilancio in attivo, puntando quindi sui giovani promettenti. La trottola prese quindi l’Autostrada del Sole in direzione nord.
I tifosi fiorentini quell’anno si videro arrivare due ragazzi romani di belle speranze, uno già affermato, che prese la maglia n. 10 e fu messo a fare il regista, e l’altro prelevato dal settore giovanile di una società romana minore, la Tevere Roma, a cui fu data la maglia n. 8 e una posizione da trequartista: Claudio Merlo (foto a destra). Con il loro humour impareggiabile, i tifosi ribattezzarono subito la nuova coppia di centrocampo viola: se da una parte c’era Merlo, dall’altra c’era Picchio. Questo fu il nome con cui fu consegnato alla storia De Sisti, mentre il suo compagno (data la stazza fisica) diventò il Secco.
Picchio e il Secco vinsero subito una Coppa Italia, nel 1966. Ma a Baglini non bastava. Venduti il vecchio Hamrin e i giovani Albertosi e Brugnera, con il ricavato portò a Firenze Amarildo, Maraschi e Chiarugi. Nel 1969 favoriti erano il Milan di Rivera ed il Cagliari di Riva. Vinse la Fiorentina di Picchio e del Secco, compari di un centrocampo che a detta di tutti quell’anno non ebbe rivali, grazie anche alla sicurezza data dietro da Brizi, Ferrante ed Esposito.
Inevitabile che di loro si accorgesse anche il selezionatore della Nazionale, all’epoca quel Ferruccio Valcareggi ex giocatore viola che aveva preso casa a Firenze, tra l’altro. Ma se Merlo ebbe soltanto l’onore di una convocazione, in quell’anno di grazia 1969, a Picchio andò molto meglio, essendo convocato già per le qualificazioni all’Europeo del 1968, che l’Italia giocò in casa e vinse, con la ripetizione della finale con la Jugoslavia. Nella seconda finale, De Sisti fu schierato in campo e poté quindi prendere parte all’apoteosi conclusiva. Divenuto titolare fisso, partecipò anche all’epopea di Mexico 70, giocando tutte le partite compreso il match del secolo Italia-Germania 4-3 e la finale in cui facemmo tremare nientemeno che il Brasile di Sua maestà Pele’, o Rey. Mentre Rivera e Mazzola si scannavano per l’altro posto a centrocampo, Picchio mantenne il suo stabilmente, senza mai discussioni da parte di nessuno.
Dopo il periodo d’oro, con il declino sia della Fiorentina ye ye di Baglini che della grande Nazionale azzurra di Valcareggi, Picchio rimase un idolo del pubblico fiorentino finché non venne ad affiancarglisi il suo successore, anche lui di nome Giancarlo, anche lui sfilato di mano ad una concorrente, anche lui con gli occhi fissi a guardare le stelle mentre giocava. Antognoni e De Sisti avrebbero potuto giocare a lungo insieme, e con loro Claudio Merlo. Ma a quel punto la Fiorentina stava incontrando difficoltà economiche, tutti questi fuoriclasse erano troppi per poterseli permettere, fu scelto di puntare sui più giovani. La maglia numero 10 viola rimase ad Antognoni, Picchio andò a riprendersi quella della Roma, e poco dopo il Secco passò all’Inter., dopo aver vinto una Coppa Italia, che sarebbe rimasto l'ultimo trofeo alzato dai viola per molto tempo.
Picchio concluse la sua carriera nel 1979, nella triste e pericolante Roma di Anzalone. Il Secco lasciò l’Inter alla vigilia dello scudetto di Bersellini e andò a finire nel Lecce, dove la sua carriera si chiuse purtroppo con una squalifica legata al primo scandalo del Calcioscommesse. Per entrambi si poneva il problema di cosa fare dopo aver appeso gli scarpini al chiodo. Per entrambi la risposta fu: diventare allenatori. Ma se per Merlo si trattò a conti fatti di rimanere nell’ambito delle squadre minori fiorentine, o comunque toscane, per Picchio anche in questa sua nuova carriera il destino aveva ancora in serbo le luci della ribalta.
Aveva appena preso il patentino di allenatore a Coverciano Picchio De Sisti, quando si rese libero il posto di allenatore proprio in una squadra alla quale lui non poteva assolutamente dire di no. Da pochi mesi, la Fiorentina era passata dalla gestione di Ugolini a quella dei Pontello, che a dispetto dei loro proclami di vittoria a breve scadenza all’inizio dovettero confrontarsi con la realtà di una squadra che alla fine degli anni 70 non era proprio di primo piano. A gennaio 1981 anzi quella squadra era in piena zona retrocessione, dopo quella evitata per miracolo tre anni prima, ed in rotta con il suo allenatore Paolo Carosi. Serviva una sterzata, i Pontello lo capivano bene, e a differenza di certi loro successori, non disdegnavano certo le bandiere care ai fiorentini. In squadra c’era ancora a giocare la bandiera Antognoni. La panchina, pensarono, affidiamola alla bandiera De Sisti.
L’allenatore Picchio fu amato da Firenze quanto era stato amato il giocatore. I giocatori lo presero a ben volere, sentendolo uno di loro, e che per di più ci capiva. La salvezza arrivò facilmente, grazie ad alcuni brillanti risultati tra cui una vittoria a San Siro in casa dell’Inter. L’anno dopo, i Pontello gli misero in mano un squadrone, e fino alla fine sembrò che colui che aveva vinto il secondo scudetto sul campo avrebbe diretto dalla panchina gli uomini che avrebbero vinto il terzo.
Mancò la fortuna, non il valore, si dice in questi casi. La Juventus di quell’anno insieme ad una Federazione mal disposta ad una proroga del campionato con spareggio (di lì a poco partiva la nazionale per il Mondiale di Spagna 82) si rivelarono ostacoli insormontabili anche per una Fiorentina che andava a mille, capace anche di assorbire una tegola come il grave infortunio ad Antognoni con Martina del Genoa. Nonostante la delusione, né i Pontello né Picchio comunque si arresero, arrivarono altri campioni e la Fiorentina targata De Sisti ci riprovò.
Nel 1982-83 Passarella stentò ad ambientarsi, e poi era l’anno della Roma di Falcao e Bruno Conti. L’anno dopo invece sembrava proprio l’anno di una Fiorentina che giocava così bene come poche volte si era visto, forse solo negli anni dei due scudetti, e quasi mai si sarebbe visto in seguito. Ma di nuovo il destino disse di no, Antognoni ebbe il secondo infortunio grave, calò una coltre di rassegnazione su una squadra che avrebbe meritato di più, e fu un altro anno in cui i viola si ritrovarono con niente in mano.
L’anno successivo fu l’anno di Socrates, e di nuove grandi speranze. Ma stavolta l’infortunio capitò proprio a lui, a Picchio, che dopo pochi mesi dall’avvio del campionato ebbe un malore che sembrò subito di grave entità. Ascesso cerebrale, dissero i medici, probabilmente dovuto a troppo stress. L’ex ragazzo che non perdeva mai né la testa né la calma, dal carattere d’oro, alla fine aveva accusato il colpo anche lui. Questa Fiorentina aveva finito per chiedergli troppo.
La prognosi era di sei mesi di riposo assoluto. Ma Picchio, su insistenza dei Pontello, provò a rientrare dopo soli 45 giorni. Un po’ la sua salute incerta, un po’ la delusione per un altro anno che stava scivolando via al di sotto delle aspettative (con il Dottor Socrates che non teneva fede alla sua fama) lo convinsero a mollare, rifiutando anche la supervisione del suo vecchio maestro, Ferruccio Valcareggi, che gli successe quindi da solo alla guida di una squadra ormai spenta.
La vecchia bandiera viola provò in seguito ad allenare ancora, lontano da Firenze. Ma la sua fortuna si era evidentemente esaurita, tra vari incarichi anche dirigenziali sia a livello di nazionale che di club, la gloria dei suoi anni d'oro a Firenze non si rinverdì più. Ad Ascoli addirittura dei facinorosi lo minacciarono, e fu l'ultima volta che Picchio sedette su una panchina di una squadra di calcio.
Sono passati tanti anni, Picchio e il Secco restano gli eroi dell’ultimo, ormai lontano, scudetto viola. Chissà che effetto fa loro vedere la Fiorentina di adesso. Probabilmente sognano quello che sogniamo tutti noi: di veder appendere accanto al loro poster ormai un po’ sbiadito, quello di un’altra squadra in maglia viola con sopra scritto campione d’Italia.