Era arrivato dalla provincia
di Pisa, lo chiamavano la Freccia di Ponsacco quando lo presero nelle giovanili
della Fiorentina. Luciano Chiarugi aveva tutto, velocità, controllo di palla,
tiro in porta e passaggio smarcante ai compagni. Era un attaccante moderno in
un calcio ancora antico, non troppo condizionato dagli schemi tattici. Giocava
all’ala sinistra per classificazione di maglia, in realtà giocava dove gli
pareva, atipico, estroso, indisciplinato. E dotato anche di un caratterino
niente male, tanto che presto il suo soprannome sarebbe stato tramutato in Cavallo
Pazzo, per analogia con il più estroso e individualista dei Capi Indiani consegnati
alla leggenda del Far West.
A quell’epoca, 1965 e
dintorni, da ragazzini si giocava nella Primavera e la domenica – quando
scendeva in campo la prima squadra – si faceva il raccattapalle allo Stadio
(che allora si chiamava Comunale), nella speranza che prima o poi il Mister si
accorgesse di te. In quel periodo il Mister era uno che ci capiva, Beppe
Chiappella, preoccupato di trovare un giovane sostituto per Uccellino Hamrin
che si avvicinava al viale del tramonto. In realtà in squadra c’era già quel
Mario Brugnera preso un paio d’anni prima a Venezia dal duo di talent scout
Baglini – Pandolfini, ma la Fiorentina ye ye di quell’epoca viveva sulle
giovani promesse, e quante più ne scopriva meglio era.
Cavallo Pazzo cominciò la sua
epopea il 30 gennaio 1966 a
Brescia, in una partita che la Fiorentina vinse per 2-1. Nel campionato del
1966-67 il trio delle meraviglie Hamrin-Brugnera-Chiarugi segnò 21 reti. Alla
fine di quella stagione Uccellino volò via verso Milano rossonera. Alla fine di
quella successiva, estate 1968, toccò a Brugnera salpare le ancore verso
Cagliari. All’epoca funzionava così. Baglini faceva quello che in epoche successive
è riuscito bene all’Udinese di Pozzo, lanciare giovani campioni e fare cassa
per investire di nuovo in altri talenti ancora più giovani ed ancora più forti.
All’avvio del campionato
1968-69 il giovane Chiarugi si trovò a condividere la responsabilità di un
attacco viola completamente rinnovato con i più esperti Mario Maraschi e
Francesco Rizzo. Apparentemente pareva una squadra viola assai ridimensionata e
non certo inserita tra le favorite per lo scudetto nei pronostici degli addetti
ai lavori. In realtà, con la fortuna che a volte aiuta gli audaci e i capaci,
Baglini e i suoi ragazzi finirono per cucirsi lo scudetto sulle maglie al
termine di una cavalcata emozionante a cui proprio Luciano mise il suggello, l’11
maggio 1969, con la rete del vantaggio viola al Comunale di Torino contro la
Juventus, che dette la matematica certezza del titolo. Quell’anno Cavallo Pazzo
segnò sette reti, lamentandosi peraltro del fatto che Pesaola gli preferisse
spesso i più stagionati colleghi.
Nella stagione successiva,
quella in cui il titolo passò al Cagliari di Gigi Riva e del suo ex compagno
Brugnera, Luciano Chiarugi ebbe la sua definitiva consacrazione, con 12 reti
segnate e la convocazione in nazionale da parte di Ferruccio Valcareggi. Anche
la sua leggenda nera contro gli arbitri ebbe la sua consacrazione in quell’annata,
dallo scontro con Concetto Lo Bello nella partita casalinga proprio contro i
sardi che segnò il passaggio di testimone tra le due squadre (grazie anche al
gol annullato all’ala viola per un fuorigioco che ancora fa discutere), fino ai
problemi con altre giacchette nere come quel Michelotti che l’aveva preso di
mira come cascatore e che coniò appositamente per lui ed i suoi emulatori il
termine chiarugismo.
Nel 1972 le strade di Cavallo
Pazzo e della Fiorentina si divisero. Passò al Milan (con il quale vinse una
Coppa delle Coppe nel 73) e da lì ad altre squadre, andando a concludere la sua
carriera nell’85 nella Massese, a due passi da casa. Subito dopo il suo ritiro,
la Fiorentina di Pontello lo prese come allenatore della Primavera e cominciò così
per lui una seconda vita. L’ex ragazzo dal talento tumultuoso dimostrò subito
di cavarsela bene a gestire il talento dei ragazzi delle nuove generazioni. Ma
come Mister non ebbe mai le soddisfazioni che si era tolto da giocatore.
Nel 1993, l’anno in cui
Vittorio Cecchi Gori esonerò Radice per motivi noti soltanto a loro due, fu
chiamato a sostituire il suo sostituto, quell’Aldo Agroppi che già si era fatto
disistimare dal pubblico fiorentino anni prima quando aveva gestito malamente
il rientro di Antognoni dal secondo infortunio. Agroppi resiste’ poche partite sulla
panchina di una squadra in caduta libera nonostante i suoi campioni, prima di
lasciare avendo intuito la mala parata. L’onere di chiudere quel campionato con
la salvezza toccò a Luciano Chiarugi e alla bandiera Antognoni. I due ci misero
il cuore e il valore per la loro Fiorentina, ma quella volta la fortuna guardò
da un’altra parte. I giocatori erano troppo frastornati da un’annata cominciata
tra i trionfalismi e virata improvvisamente alla tragedia sportiva. Il biscotto
dell’Olimpico tra la Roma e l’Udinese non lasciò scampo ad una Fiorentina
che si era tenuti tutti i compiti da fare per l’ultimo giorno utile. Nonostante
un 6-2 al Foggia, Batistuta & C. andarono in serie B, Antognoni tornò a
fare il dirigente in Piazza Savonarola, Luciano Chiarugi riprese ad allenare la
Primavera, amareggiato ma con ben poche colpe.
L’anno dopo sembrò che la
sorte gli sorridesse, al Torneo di Viareggio (già vinto nel 1992, ultimo trionfo
viola a tutt’oggi) la sua splendida Primavera nella quale tra gli altri giocava
il “fenomeno” dell’epoca Francesco Flachi arrivò alla Finale contro la nemica
di sempre, l’odiata Juventus. In quel momento con la squadra maggiore in serie
B, l’occasione di dare soddisfazione – e che soddisfazione – ai tifosi era
ghiotta. I ragazzi si batterono bene, costringendo i rivali bianconeri ad una doppia
finale con tempi supplementari. La prima finì 2-2, e così stava per finire
anche la seconda, senonché anche nella Juve c’era un fenomeno, Alessandro Del
Piero, e proprio a lui toccò segnare il 3-2 definitivo su rigore al 105’. Coppa Carnevale alla
Juventus e Luciano Chiarugi a rimasticare amaro.
Luciano di carattere ne ha
sempre avuto. L’anno dopo vinse la Coppa Italia Primavera (ultimo trofeo fino
alla vittoria del 2011 di Renato Buso), e continuò a dirigere da allenatore
quello che rimaneva il settore d’eccellenza della Fiorentina, la Primavera.
Fino al 2001, anno in cui la squadra maggiore ebbe nuovamente bisogno di lui.
Dapprima si trattò di traghettare la panchina dal transfuga Terim all’enfant
prodige neopatentato Mancini. Poi l’anno dopo, fuggito anche Mancini su
sollecitazione dei tifosi preoccupati da una stagione che volgeva di nuovo al
peggio come 10 anni prima, resse la squadra fino all’arrivo di quell’Ottavio Bianchi
che mise la pietra tombale sulla Fiorentina di Cecchi Gori, che retrocesse e
fallì nell’estate di quel 2002.
La Fiorentina rinacque poco
dopo per mano dei fratelli Della Valle. Ma non era più tempo di scorrerie nelle
grandi praterie verdi. Erano arrivate le Giacche Blu e per gli Indiani, anche i
più irriducibili come Cavallo Pazzo, era arrivato il momento di rientrare in
Riserva. Adesso si gode i suoi splendidi 65 anni Luciano Chiarugi. Chissà che
prima o poi la patria viola non abbia ancora bisogno di lui. E magari con
maggiore fortuna.
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