Ci sono personaggi ai quali
la storia del calcio sta stretta. Bisogna andare a ricercare i loro archetipi
in quella della letteratura, della musica, dell’arte. Così, se per spiegare
vita, morte e miracoli di un genio e sregolatezza come George Best bisogna scomodare gente come George Byron, Samuel
Coleridge, James Joyce o il Mick Jagger dei Rolling Stones piuttosto che sir
Alex Ferguson, sir Bobby Charlton e i Red Devils del Manchester United, per
raccontare le imprese di Edmundo Alves de Souza Neto, detto Edmundo e poi
soprannominato o’
animal bisogna rifarsi a Joseph
Conrad e ai suoi protagonisti maledetti. Per raccontare il suo tormento e la
sua estasi (cioè fuori e dentro il campo da gioco) bisogna scomodare Michelangelo
Buonarroti. Oppure, sebbene nato ben al di sopra del Rio de la Plata, a Niteroi
nello stato brasiliano di Rio de Janeiro, lo si può ritrovare nelle pagine immortali
sul gioco del calcio di un grande argentino, Osvaldo Soriano.
Era un talento enorme,
Edmundo, di quelli d’altri tempi, fin da quando faceva sfracelli nelle
giovanili del Vasco de Gama. Poi al Botafogo, al Palmeiras, al Corinthians, al Flamengo,
i più grossi club carioca se li era girati tutti,
senza mai mettere radici. Un po’ come il Christian Vieri di quegli anni lì, non
stava mai fermo Edmundo. Ma come toccava la palla lui ce n’erano pochi, perfino
nel suo paese, dove gli artisti della pelota nascono
come i funghi.
Nel gennaio del 1998, un
ancor giovane e di belle speranze produttore cinematografico fiorentino che sognava
di concludere l’opera paterna sfondando nel mondo della televisione e del
calcio, cercava un grande campione per far fare il salto di qualità definitivo
alla sua squadra, la Fiorentina, che dopo varie peripezie si stava inserendo più
o meno stabilmente nel gruppo di quelle Sette Sorelle che
costituivano il bacino da cui ogni anno doveva uscire la vincitrice del campionato.
E siccome era un’epoca di vacche grasse per il calcio italiano, anche di
qualche Coppa europea. I campioni stranieri venivano tutti qui, altro che
Spagna o Inghilterra. Ne mancavano pochi all’appello, in quell’anno che avrebbe
visto disputarsi i mondiali in Francia. Uno di questi era Edmundo. Lo prese
Vittorio Cecchi Gori, reduce dal successo cinematografico del Ciclone di Pieraccioni, con tanti soldi ancora da investire
dopo l’affare Kanchelskis andato a male sulle gambe assassine di Taribo West.
Inizialmente, Edmundo
pareva chiuso dal connazionale Lulu Oliveira, che nella stagione 1997-98 con
allenatore Alberto Malesani giocò forse la sua migliore stagione a Firenze. Poi
nel finale di campionato colui che era arrivato con il soprannome di o’ animal per il suo carattere notoriamente intemperante cominciò
a mostrarsi per quello che era quando aveva il pallone ai piedi: un’ira di dio.
Nel campionato 1998-99, VCG
prese il miglior allenatore che c’era, Giovanni Trapattoni, e con un attacco
formato da Omar Gabriel Batistuta, Edmundo e Oliveira la Fiorentina cominciò a
volare e a far sognare i tifosi. Quando partiva Edmundo, seminava il panico
nelle difese avversarie e lasciava spazi che per i suoi fortissimi compagni
erano inviti a nozze. Alla fine del girone d’andata la Fiorentina era campione
d’inverno, mentre per buttarla fuori dalla Coppa UEFA c’era voluta la farsa
della bomba carta di Salerno.
Ai primi di febbraio
successero due cose. Batistuta si fece male nello scontro diretto contro il
Milan, e stette fuori più di un mese. Edmundo, subito dopo quell’infortunio,
annunciò: cari signori, comincia il Carnevale di Rio, nel mio contratto c’è scritto
che ci posso andare, arrivederci a tutti e buona permanenza. Quando l’asso carioca ritornò, anche lui quasi un mese dopo, la Fiorentina
era scivolata indietro, al terzo posto. Addio sogni di gloria. Quella stagione,
cominciata con i migliori fuochi d’artificio brasileri,
finì con una saudade
spaventosa che da Edmundo si trasmise
a tutti i tifosi viola, per l’occasione persa. Nessuno ebbe dubbi a Firenze,
dando la colpa al giocatore per la sua fuga irresponsabile e al presidente-patron che gliela aveva altrettanto irresponsabilmente
concessa.
Pochi in realtà sapevano
che c’era sotto ben altro, che il giocatore non si era ambientato per niente,
che alla sua estasi in campo corrispondeva un tormento esistenziale nella vita
di tutti i giorni in una città con cui non riusciva a prendersi. Era già successo in passato ad altri campioni
leggendari, come quel Julio Botelho detto Julinho che
malgrado uno scudetto vinto, una finale di Coppa dei Campioni e due secondi
posti in campionato alla fine aveva ceduto alla nostalgia della sua patria,
aveva salutato la Fiorentina ed era ripartito.
Ma per Edmundo il soggiorno
fiorentino fu addirittura devastante. La villa di Quarto dove alloggiava, lungi
dal dargli il conforto degli agi di cui avevano beneficiato nei secoli molti
illustri predecessori, lo opprimeva con fasto e dimensioni sconosciute ad un
ragazzo brasiliano. La città attraeva per il suo fascino, ma respingeva per il
carattere dei suoi abitanti, non certo i più espansivi e amichevoli della
Terra. La privacy, per un giocatore della Fiorentina allora come
adesso, in compenso era merce sconosciuta.
Per trovare un po’ di
tranquillità, o’
animal doveva andare in ristorantini
fuori mano, per trovare un po’ di calore da parte di amici (come Francesco
Toldo) doveva organizzare spesso partite a carte che non riuscivano
evidentemente a riempire la sua enorme dimora. In più, sua moglie soffriva la saudade ancor più di lui, e a un certo punto gli mise di
fronte l’aut aut: io torno in Brasile, se resti qui ci resti da solo.
In queste condizioni, la
fuga al Carnevale di Rio era quasi inevitabile. Non c’era scudetto che potesse
tenere. Così come, per i tifosi, al suo ritorno non c’era giocata o gol che
potessero far dimenticare il tradimento.
Alla fine (ingloriosa) di quella stagione, arrivò una separazione che più
consensuale di così non avrebbe potuto essere. Cecchi Gori ci riprovò un’ultima
volta chiamando a sé Enrico Chiesa e Pedrag Mijatovic al posto del reprobo brasiliano, e trattenendo un Giovanni Trapattoni
sempre più sconcertato. Come andò a finire è storia nota. L’armata Cecchi Gori
resse fino alla beffa del Mestalla di Valencia, poi si
disfece, e con lei rischiò di disfarsi anche il calcio a Firenze.
Edmundo invece continuò a
giocare fino al 2008, con una parentesi a Napoli che non ebbe miglior fortuna
di quella viola. Le sue vicende umane personali e familiari precedenti e
successive a quelle poche pennellate d’autore dipinte in maglia viola fanno una
grande tristezza, e aumentano il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere
(e avrebbe potuto avere ben altro posto in questa galleria di campioni
gigliati) e non era invece destino che fosse.
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