La notte del 25 giugno 1978
le mani che sollevarono al cielo allo Stadio Monumental di
Buenos Aires la prima Coppa del Mondo di calcio della storia argentina furono
le sue. Daniel Alberto Passarella era il capitano indiscusso e indiscutibile
della Nazionale biancoceleste in cui era entrato nel 1974 dopo i Mondiali di
Germania e da cui uscì nel 1986 dopo i Mondiali (ancora vittoriosi) del Messico.
Unico giocatore argentino della storia a vincere due Mondiali (anche se quello
dell’86 di fatto non lo giocò, ufficialmente essendo stato colpito dalla Maledizione
di Montezuma, ma c’è chi dice a causa di contrasti insanabili con l’altro personaggio
carismatico di quella squadra, el Pibe de Oro Diego
Armando Maradona), è stato inserito da Pelé nella lista dei 100 migliori
giocatori di tutti i tempi.
Daniel è nato a Chacabuco
nella Provincia di Buenos Aires il 25 maggio 1953. E' stato uno
dei giocatori più straordinari della storia viola, nonché del calcio mondiale.
Tecnicamente, era quello che allora si chiamava un libero, cioè il regista della difesa, ed è stato uno dei
migliori interpreti di sempre di quel ruolo, insieme al povero Gaetano Scirea,
all’olandese Ruud Krol e al tedesco Franz Beckenbauer. Era un difensore
moderno, capace di attaccare e di segnare molti gol, soprattutto su punizione.
E’ il secondo difensore nella classifica dei marcatori assoluti di tutti i
tempi, al secondo posto dietro Ronald Koeman con 178 reti, di cui 22 con la
maglia biancoceleste e 26 con quella viola.
Del Mondiale 1978 molti
ricordano la sua foto con il Generale Videla, il feroce dittatore argentino che
utilizzò la vittoria come cassa di risonanza per il regime che aveva
insanguinato il suo paese, con una repressione senza precedenti e la tragedia
dei desaparecidos. Ma Daniel era soltanto il capitano, il conducador di una squadra forte e determinata, che aveva il vantaggio
di giocare in casa e che fu piegata soltanto una volta, nelle eliminatorie,
dalla fortissima Italia di Enzo Bearzot. Fargli colpa di quella foto equivale a
contestare a Peppino Meazza la presenza alla premiazione del 1934 accanto a
Benito Mussolini, semplicemente assurdo.
A colpire del capitano
argentino erano piuttosto la classe immensa ed il carisma. Nel River Plate, la
sua squadra di club, o nella Nazionale, nessuno metteva in discussione la sua leadership, neppure giocatori del prestigio di un Mario Kempes,
di un Osvaldo Ardiles o di un Daniel Ricardo Bertoni. Con l’astro nascente
Maradona fu un altro discorso, i due non si sopportavano, essendo completamente
diversi dentro e fuori dal campo. Era però inevitabile che el Pibe la spuntasse a gioco lungo: come era stato escluso lui
nel 1978 perché troppo giovane, nel 1986 chiese e ottenne l’esclusione di
Passarella perché troppo vecchio. I fatti gli dettero ragione, perché quella volta
furono le sue mani ad alzare la seconda Coppa argentina.
Nel 1982, ai Mondiali di
Spagna, fu l’ultimo dei suoi ad inchinarsi alla Nazionale di Bearzot, che
cominciò proprio contro l’Argentina la cavalcata verso il terzo titolo
mondiale. Mentre Maradona si faceva esasperare ed annullare dalla marcatura stretta
di Gentile, Passarella segnò il gol della bandiera biancoceleste, uscendo dal
torneo a testa più che alta. A quel punto, il suo cartellino era già di
proprietà della A.C. Fiorentina. Il Conte Pontello, malgrado la scottatura di
uno scudetto perso agli ultimi minuti in modo discutibile per mano della
Juventus, aveva deciso di rilanciare. L’ottimo Roberto Galbiati, uno dei
protagonisti della stagione 1981-82, fu sacrificato, ma nessuno ebbe da ridire,
poiché era in arrivo uno dei migliori del mondo. Uno dei migliori di sempre. In
viola c’era già il connazionale Daniel Bertoni, el Puntero; c’erano i campioni del mondo Galli, Antognoni,
Graziani e Massaro. C’era di che sognare, insomma.
L’esordio fu duro, Il
fuoriclasse argentino era abituato a un calcio e a dei compagni tra cui dettava
legge, a Firenze gli ci volle tutto il girone d’andata per prendere le misure
al campionato italiano. Il 1983 fu l’anno della Roma di Falcao, Bruno Conti e
di Nils Liedholm. La Juventus con tre quarti di Nazionale azzurra più Platini e
Boniek stentava. La Fiorentina, lungi dall’ottenere la rivincita per lo
scudetto scippato a Cagliari e Catanzaro, fu soltanto quinta. Ma a fine
stagione Daniel Alberto Passarella era diventato per i suoi tifosi el Caudillo, parola che in spagnolo significa leader assoluto,
politico o militare. Era stato l’appellativo del dittatore spagnolo Francisco
Franco, per capirsi. Qui fu solo il soprannome rispettoso e affettuoso
riservato dai tifosi ad un giocatore che come era abituato a fare ovunque prese
in mano la squadra viola e per tre anni la condusse saldamente.
Il 1983-84 sembrava l’anno
buono, per i Pontello e per Firenze. Ma il bruttissimo secondo infortunio ad
Antognoni non permise alla Fiorentina di reggere la concorrenza di Juventus e
Roma, malgrado una forza di squadra notevole ed un impianto di gioco
spettacolare. Nei due anni successivi, la Fiorentina fu intristita dal malore
che mise fuori gioco l’amato mister Picchio De Sisti, dal lento, difficile e insoddisfacente
recupero di Antognoni (che non tornò più quello di prima) e dalla constatazione
che il Socrates sbarcato a Firenze era ormai lontano parente di quello ammirato
in Spagna e nel Corinthians: un giocatore a fine carriera. Lentamente, le stelle
viola si appannavano tutte. Alla fine rimase solo lui, grande campione e
professionista esemplare fino all’ultimo minuto giocato con la Fiorentina. In
106 partite, a Firenze segnò 26 reti. In particolare, i tifosi ricordano
volentieri il gol della vittoria a Torino sulla Juventus nel 1985, un evento
che non si verificava più dall’anno dell’ultimo scudetto.
Nel 1986, in procinto di
trasferirsi all’Inter, segnò due reti all'ultima giornata lasciando alla
Fiorentina la vittoria a Pisa e la qualificazione alla Coppa UEFA ai danni
della sua futura squadra. Alla fine di quella stagione, Galli e Massaro
passarono al Milan alla cui presidenza si era appena insediato Silvio
Berlusconi. Antognoni rimase a fare più che altro panchina, in attesa della
consacrazione del suo erede Roberto Baggio. Daniel Alberto Passarella indossò
la maglia nerazzurra e trascorse due anni crepuscolari a Milano. La maledizione
di Montezuma, di Maradona, o semplicemente dell’età, 33 anni, si faceva sentire.
Nel 1988 fece ritorno in
patria, al suo River Plate, di cui fu per una stagione il primo
allenatore-giocatore della storia. L’anno dopo appese le scarpe al chiodo,
restando per altri cinque anni allenatore del River. Dal 1994 fino ai Mondiali
di Francia del 1998 fu selezionatore della nazionale biancoceleste. In Francia,
l’Argentina fu eliminata ai quarti dall’Olanda e ferocemente criticata dalla
stampa del suo paese per il gioco poco spettacolare, malgrado la presenza di
fuoriclasse come Omar Gabriel Batistuta, Abel Balbo ed Hernan Crespo. Quasi mai
i fuoriclasse in campo lo sono stati anche in panchina, lo stesso Maradona
avrebbe confermato la regola circa dieci anni più tardi di lui.
Dal 2009 Daniel Alberto è
passato dietro la scrivania del River Plate, diventandone il presidente, carica
che ricopre attualmente. Un condottiero come lui non l’abbiamo avuto e non lo riavremo più.
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