Se il primo scudetto della Fiorentina era nato a Prato, il secondo
nacque a Pisa. Nello Baglini vi ebbe i natali nel 1907, anche se poi la
vita lo portò a Firenze, città alla quale sentì sempre di appartenere
per adozione. La sua professione di imprenditore nel settore degli
inchiostri da stampa lo obbligava a trascorrere gran parte del suo tempo
a Milano, ma il suo cuore era sempre nel capoluogo toscano. Tifoso
della Fiorentina, quando venne il suo momento si rivelò uno dei più
grandi presidenti di sempre, al pari del leggendario Befani.
Befani aveva lasciato la società nel 1961, alla fine del suo ciclo
vincente. Per avviarne un altro servivano investimenti, e per farli
aveva chiesto modifiche societarie che il C.d’A. non gli accordò. Allora
l’industriale pratese lasciò la mano a Longinotti, da Enrico I a Enrico
II, titolò la stampa cittadina. In realtà Longinotti non seppe
capitalizzare l’eredità del suo predecessore, accumulò forti debiti (800
milioni di lire, niente male per l’epoca) ed ottenne scarsi risultati,
finché nel 1965 decise di lasciare a sua volta.
Questa era la situazione che Baglini trovò al suo arrivo. Bilancio da
risanare e squadra da rifondare. Lui era ritenuto un duro, un lottatore,
e lo dimostrò subito. Al motto di «per la Fiorentina questo ed altro!»
si mise subito all’opera attuando pochi ma semplici concetti. Per
battere gli squadroni del nord non si poteva far loro concorrenza sul
piano economico, ormai. Bisognava puntare sui giovani, sviluppando al
massimo quel vivaio che sotto la guida di Egisto Pandolfini stava già
all’epoca raggiungendo risultati di eccellenza, e approfittare delle
occasioni di mercato, come quella che gli capitò poco dopo il suo
arrivo, allorché prese dalla Roma il romano de Roma Giancarlo De Sisti,
che si rivelò subito il fuoriclasse intorno a cui costruire la squadra.
Poi vennero uno dopo l’altro Merlo, Brugnera, Chiarugi, Maraschi, Brizi,
Ferrante, Esposito, Superchi. Già nel 1966 arrivarono la Coppa Italia e
la Mitropa Cup. Mentre Uccellino Hamrin spendeva gli ultimi scampoli di
una gloriosa carriera, Picchio De Sisti e gli altri ragazzi terribili
dettero corpo all’epopea della Fiorentina ye ye. Con questo
termine da musica pop inglese si volle sottolineare appunto l’aspetto
giovanile e brioso, in linea con i tempi, di una squadra che non era
stata allestita a suon di colpi di mercato come quella del 1956, ma che
seppe comunque ripeterne le imprese.
Baglini, che nel frattempo stava riorganizzando anche la società
adottando provvedimenti indubbiamente drastici e coraggiosi, come quello
di sospendere tutti gli ingressi omaggio in tribuna d’onore e di
obbligare anche gli stessi consiglieri a pagarsi l’abbonamento, agì
dunque con coraggio e determinazione sul mercato, dimostrando di voler
puntare al vertice. Dopo una stagione sofferta, che aveva visto alla
fine del 1967 l’esonero dello stimato allenatore Beppe Chiappella in
favore del duo Luigi Ferrero - Andrea Bassi, Il presidente andò a
trattare niente meno che Helenio Herrera, che aveva appena lasciato la
Grande Inter di Moratti.
Sfumato il suo ingaggio per l’intervento della Roma (e di un potente
tifoso della Roma appartenente al mondo politico, pare, soprattutto),
senza battere ciglio andò a prendere l’ex allenatore del Napoli, quel
Bruno Pesaola, detto il Petisso, che aveva portato i partenopei
ad un incredibile secondo posto. Gran giocatore di poker e fumatore di
sigarette, Pesaola non risultò simpatico ai giornalisti fiorentini, ma
non si scompose, dichiarando subito di essere consapevole di avere una
grande squadra e che il tempo gli avrebbe dato ragione. E così fu.
Dopo aver ceduto Hamrin al Milan in cambio di Amarildo e poi anche
Brugnera e Albertosi al Cagliari emergente di Gigi Riva, Baglini
consegnò al tecnico argentino e agli attoniti tifosi una squadra
indecifrabile, apparentemente indebolita, ma che invece si rivelò una
compagine formidabile.
Partita malino (alla quinta giornata perse in casa con il Bologna, ma fu
l’unica sconfitta di quel campionato), la Fiorentina della linea verde
prese coraggio partita dopo partita, tenendo botta al Milan ed al
Cagliari e poi ritrovandosi in testa e difendendo il vantaggio
strenuamente nel girone di ritorno, fino all’epica sfida con la Juventus
al Comunale di Torino, dove il 2-0 firmato da Chiarugi e Maraschi le
dette la certezza matematica: «Qui Torino, la Fiorentina è campione d’Italia» annunciò la radio alla fine, e Firenze tornò a tingersi di viola.
Baglini era nella leggenda, e avrebbe atteso inutilmente nei trenta anni
successivi, fino alla sua morte avvenuta nel 1999, che qualche altro
presidente andasse a raggiungerlo, regalandogli e regalandoci la gioia
di un altro scudetto. Invece purtroppo fece appena in tempo a vedere
l’ultimo tentativo, quello di Batistuta ed Edmundo, andare a male.
Lasciò la presidenza nel 1971, dopo una stagione (1969/70) in cui difese
onorevolmente il titolo contro Rombo di Tuono ed il Cagliari di
Scopigno e conquistò i quarti di finale di Coppa dei Campioni, ed
un’altra (1970/71) in cui la squadra ormai scarica soprattutto di nervi
si ritrovò a lottare per non retrocedere, costringendolo ad esonerare
l’allenatore Pesaola che lui aveva amato ma che Firenze (per qualche
ragione) aveva solo sopportato. Il suo sostituto, Oronzo Pugliese,
ottenne la salvezza solo agli ultimi minuti del campionato.
Cominciava un’altra storia. Baglini lasciò la Fiorentina a colui che era
stato uno dei suoi collaboratori, Ugolino Ugolini, il quale fece il
possibile per continuare la sua politica dei giovani, però con meno
fortuna di lui. E fino all’ultimo giorno restò tifoso della squadra
viola. E’ stato il fondatore del Centro di Coordinamento Viola Club già
nel 1965, la prima struttura di organizzazione del tifo a Firenze. E
lasciò una Fiorentina in attivo, che poteva appuntare orgogliosa sulla
sua bandiera due scudetti e tre Coppe Italia, oltre alla Coppa delle
Coppe ed alla Mitropa. Una bandiera che dai suoi tempi, purtroppo, non è
cambiata molto, quanto a trofei esibiti.
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