Sarti,
Magnini, Cervato, Chiappella,
Segato, Rosetta, Montuori, Julinho,
Virgili, Prini, Gratton. Lo speaker
dello Stadio Comunale di Trieste (il vecchio Littorio, che poi sarebbe
stato intitolato a Giuseppe Grezar, uno dei grandi del Grande
Torino scomparso a Superga) lesse questa formazione della squadra
ospite che quel 6 maggio 1956 scese in campo contro la Triestina.
Non era una partita qualsiasi, alla
ventinovesima partita di quel campionato di serie A 1955-56 la
Fiorentina si presentava imbattuta da 35 partite. Aveva perso
l’ultima volta a Bergamo per 5-1, nel campionato precedente. Poi tutti i pezzi
di una macchina da calcio perfetta erano andati a posto. La squadra viola aveva
preso il volo, e quel giorno di maggio a Trieste le mancava un punto soltanto
per laurearsi campione d’Italia per la prima volta nella sua storia cominciata
trent’anni prima.
Segnò Julinho al 42’, il pareggio degli alabardati
fu fulmineo, appena due minuti dopo con Sergio Brighenti. Finì
1-1, i viola con cinque giornate d’anticipo chiusero il discorso per quel
campionato 1956 riportando lo scudetto a sud dell’Appennino per la prima volta
nel dopoguerra. Non contenti, allungarono il proprio record di imbattibilità
fino a 40 partite consecutive, vedendoselo interrotto soltanto all’ultima
giornata a Marassi a Genova. A un quarto d’ora dalla fine la Fiorentina
vinceva 1-0, poi il Genoa ne segnò tre e quel campionato
favoloso finì così, con quella minuscola macchia su un affresco che avrebbe
mantenuto il suo splendore nei secoli dei secoli.
Artefici di quell’impresa, oltre agli
undici cavalieri annunciati quel 6 maggio dallo speaker triestino ed
ai loro compagni in panchina Toros, Bartoli, Carpanesi,
Mazza, Orzan, Scaramucci e Bizzarri,
erano stati principalmente due personaggi. Uno già arcinoto al calcio italiano,
l’altro un clamoroso outsider. Quest’ultimo era il presidente Enrico
Befani, industriale tessile di Prato con la passione del calcio
vissuta in quel di Firenze, che aveva rilevato la squadra viola nel 1951 da Carlo
Antonini e dopo un avvio travagliato aveva montato pezzo per pezzo una
fuoriserie. Alla guida della quale aveva chiamato un ex enfant prodige
romano, Fulvio Bernardini, che da giocatore era stato talmente
bravo da costringere Vittorio Pozzo ad escluderlo dalla squadra
azzurra campione del mondo nel 1934, perché i compagni non riuscivano a capirlo
e stargli dietro.
Da allenatore, Bernardini
fu più bravo ancora. Vinse due soli scudetti, ma pesantissimi, ed entrambi al
di sotto di quella linea fatidica dell’Appennino: nel 1956 appunto a Firenze,
nel 1964 a
Bologna. Lo scudetto viola fu un capolavoro impreziosito dalle giocate di
alcuni dei più grandi fuoriclasse dell’epoca. Due su tutti: Miguel
Angel Montuori, l’oriundo cileno-argentino segnalato a Befani
da Padre Volpi un frate missionario talent scout
a tempo perso, e soprattutto lui, Julio Botelho detto Julinho.
Il primo di una lunga serie di unici 10. Colui che spinse il mister Bernardini
ad una definizione leggendaria: “Un’ala può arrivare fino a Julinho. Non
oltre".
Come sarebbe successo tredici anni dopo,
la chiave di volta del successo viola fu la partita alla quinta giornata contro
il Bologna. Diversamente dal secondo scudetto, che prese le
mosse dalla frustata subita in casa dai rossoblu per 3-1, il primo decollò
invece grazie ad una vittoria in trasferta per 2-0 nel derby
dell’Appennino. Fu una marcia trionfale interrotta solo dal gol
dell’ex Gunnar Gren a Marassi il 3 giugno, un mese dopo che la
Fiorentina si era cucita il suo primo scudetto accanto al
giglio in quel di Trieste.
Per la prima volta, i tifosi fiorentini
fecero tardi ad attendere la squadra per portarla in trionfo dopo la grande
impresa. Per la prima volta, la bandiera che solitamente garriva sulla Torre
di Maratona, fu per l’occasione spostata sulla Torre di Arnolfo. La Fiorentina
entrava nella storia del calcio stabilendo una serie di record destinati a
durare a lungo (quello di imbattibilità fino al 2012, superato dalla Juventus
di Antonio Conte) , con il Milan secondo
staccato di dodici punti, il capocannoniere Beppe Virgili
autore di 21 reti e 20 vittorie su 34 partite di quel campionato.
Come cantava in quegli anni il suo inno
interpretato dalla splendida voce di Narciso Parigi, la maglia
viola era finalmente di Firenze vanto e gloria.
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