lunedì 30 maggio 2016

Ultimo viene il Corvo

Aveva salutato baracca e burattini, o forse baracca e burattini avevano salutato lui, oppure si erano salutati di comune accordo, la notte passata alla storia viola come quella della vergogna. Il popolo inferocito chiedeva un capro espiatorio per l’onta subita dalla Juventus che aveva pascolato le sue bestie ed abbeverato le sue truppe sul prato del Franchi. Non si trovò di meglio che dare il benservito a lui, che per sette anni aveva avuto in mano l’Area Tecnica. Vale a dire l’approvvigionamento di giocatori. Quei giocatori a cui, dopo aver camminato vittoriosi ad Anfield Road, si era spenta la luce improvvisamente, una volta andato via Cesare Prandelli.
Le responsabilità erano disseminate un po’ ovunque, ma evidentemente fece comodo che se le addossasse tutte lui. Il quale ottemperò, senza battere ciglio. Per tutti questi quattro anni, passati tra Vernole e Bologna, mai una parola aspra, una critica amara. Altri hanno dettato le proprie memorie al web per molto meno. Lui sempre zitto, riservato. Come in attesa di qualcosa, che prima o poi poteva verificarsi. Di nuovo, magari.
Qualcuno diceva che Diego Della Valle e Pantaleo Corvino erano – e sono – congeniali e funzionali l’uno all’altro. Sembrava un’eresia, visto il modo con cui si era concluso il loro rapporto. E invece ecco qua l’A.C.F. Fiorentina annunciare la sera del 30 maggio 2016 che è lieta di comunicare che è stato raggiunto l’accordo per il ritorno a Firenze di Pantaleo Corvino, con l’incarico di Direttore Generale dell’Area Tecnica.
Corvino, già protagonista di un ciclo in viola ricco di soddisfazioni dal 2005 al 2012, si è legato al club con un contratto biennale e sarà al vertice di un comparto che verrà ampliato ed arricchito da nuove figure professionali.
Affidandosi alle competenze, all’esperienza e alle qualità professionali di Pantaleo Corvino, la Fiorentina è certa di garantire un riferimento costante alla Prima squadra e una guida per l’area scouting e il settore giovanile viola.
La Fiorentina dà il bentornato a Corvino, augurandogli buon lavoro per stagioni ricche di soddisfazioni e di successi.
Ecco qua. Tanto male non dovevano essersi lasciati, allora. L’uno, il magnate, aveva avuto modo di riflettere che con le plusvalenze del diesse ci aveva fatto quadrare altri quattro bilanci dopo averlo esautorato, a torto o a ragione. L’altro, il diesse, aveva ben chiaro che di magnati come questi in Italia ce ne sono pochi. Oddio, non è più tempo di vacche grasse nemmeno qui a Firenze, se mai lo è stato. Ma insomma, meglio di tante nozze con i fichi secchi da imbandire in tante altre piazze….
Alla fine, Diego e Pantaleo devono aver valutato che era l’ora di reincrociare le proprie strade. Patti chiari, amicizia lunga, magari. Non è più tempo di andare a prendere in Montenegro ragazzotti slavi di belle promesse e pagarli otto milioni di euro. Magari di riprendere altri ragazzotti slavi da Roma che non hanno sfondato più di tanto e per comune interesse economico sì, vedremo. Non è tempo di spendere per nuovi Toni e Gilardino che non ci sono. Non c’è un Mutu da poter sfilare al fallimento di qualche big, e nemmeno un Gonzalo o un Borja Valero. Di Cuadrado non ne parliamo nemmeno. I nomi che i giornalisti vicini alla società sono autorizzati a fare sono molto meno altisonanti. Non saranno nozze con i fichi secchi, ma magari sarà il caso di rimandare le nozze all’anno prossimo.
Di positivo, c’è che figure da Mammana non dovremmo farne più. Corvino sa che certe cose non cambiano. A Firenze, per far stare tranquillo Diego, comanda tutto il ragionier Cognigni. Con il quale il Corvo va d’accordo a meraviglia, da sempre. Se il Corvo si alza in volo, significa che l’altro corvo – pardon, ragioniere, ci è scappata…. – ha già dato il benestare. Non ci saranno più telefonate transoceaniche sul filo dell’avanspettacolo. Se si parte, si parte per prendere. Magari non si va più in là di Empoli, Frosinone e Carpi. Ma il Corvo a mani vuote a casa non ci torna.
Diamogli dunque il bentornato, insieme alla A.C.F Fiorentina. Ma siamo consapevoli che i tempi sono cambiati. Che questo è un cavallo di ritorno che non deve vincere il Gran Prix d’Amerique o Ascot. Deve correre il Palio della Pizzica. L’orizzonte dei suoi ritrovati datori di lavoro si è ristretto assai, nel frattempo. Pantaleo è l’ultimo tentativo di mantenere in vista comunque un orizzonte, dalla Torre di Maratona.
Altrimenti lo scouting del futuro lo farà qualcuno che viene da molto più lontano. Da laggiù dove sorge il sole. Il Sol Levante.


P.S. Il titolo dell'articolo è una citazione di una raccolta di racconti di Italo Calvino. Il Maestro ci perdonerà.

Il film del campionato viola: Ritorno alle stalle



Con il girone di ritorno comincia un altro film. A Milano con il Milan l’ex Mihajlovic si toglie lo sfizio di consumare freddissimo un piatto della vendetta che aspetta di assaggiare da tempo. Bacca segna subito, Kalinic non risponde. Nel finale Boateng approfitta di una dormita difensiva uccellando Tatarusanu. 2-0, per la felicità di Melissa Satta e di Cristina De Pin.
La settimana dopo con il Torino ci si dimentica per una volta di un gemellaggio spesso a senso unico e si gioca l’onesta partita che ristabilisce i valori in campo. 2-0 anche qui, con Ilicic e Gonzalo che timbrano il cartellino e illudono il popolo viola che il peggio sia passato.
A Genova, sponda Genoa, è partita dove si corre tanto e dove per una volta la Fiorentina non impone il suo possesso palla. Alla fine, pur con il fiatone, la Fiorentina strappa uno 0-0 che se va stretto a qualcuno quello è il Grifone.
Tra i rigori dell’inverno, il 3 febbraio i viola vendicano l’eliminazione dalla Coppa Italia contro il Carpi. Nella morsa del gelo segna subito Borja Valero. Dopo settanta minuti, Lasagna si rivela indigesto anche per la Fiorentina. Il neo-acquisto Zarate, unico colpo vincente di una campagna acquisti fallimentare, fa innamorare Firenze con un eurogol al 93’.
A Bologna, finalmente un Bernardeschi schierato da Sousa dove calcio comanda, cioè al centro della mediana di centrocampo, illude i viola portandoli in vantaggio. I suoi compagni lo deludono consentendo a Giaccherini il più comodo dei pareggi.
14 febbraio, per San Valentino arriva l’Inter che vuole dimostrare di non essere quella dell’andata. Non ci riesce, subendo la Fiorentina, ma passa in vantaggio nel primo tempo con Brozovic. Nella ripresa pareggia Borja Valero. Fnirebbe così se Babacar non risorgesse momentaneamente dalla tomba segnando un altro gol di rapina dei suoi, sempre al 93’.
Quattro giorni dopo arriva il Tottenham, di nuovo sorteggiato come avversario dei viola di Europa League. Stavolta è dura. Passano gli inglesi su rigore, pareggia Bernardeschi con un eurogol alla Mauro Bressan. La Fiorentina ne sbaglia tanti, troppi. A Londra stavolta servirà un miracolo.
A Bergamo, rinasce Mati Fernandez, che quando vede Atalanta vede rosso. Raddoppia Tello al suo primo gol in viola, accorcia Conti per gentile concessione della difesa ospite, si rivede Kalinic in contropiede, chiude Pinilla che quando vede viola vede ancora più rosso. Ma non c’è tempo per una nuova beffa, vince la Fiorentina 3-2.
A Londra, niente miracoli. L’avventura di coppa dei ragazzi di Sousa si chiude sotto il peso di tre gol. Stavolta non ci sono attenuanti, né scuse. In campo sembra che ci sia almeno una categoria di differenza con il Tottenham, e non a favore dei viola.
Arriva il Napoli, e per l’ultima volta la Fiorentina si ricorda di come giocava all’andata. Porta in vantaggio i viola Alonso, che poi fa il verso a Ilicic scherzando con Higuain. Pessima idea, pareggio immediato. Finisce 1-1, ma almeno al Franchi si è rivisto giocare un gran calcio.
A Roma, per venti minuti, ci si illude di poter restituire lo sgarbo dell’andata, per non parlare di quelli fatti dai viola la stagione precedente. Poi El Shaarawy e Salah affondano nel burro. Ilicic segna su rigore il gol dell’ultima illusione. Nella ripresa ancora Salah (la cui sentenza UEFA slitta nel frattempo a data da destinarsi) e poi chiude Perotti, altro obbiettivo di mercato, sì, ma degli altri. Nessuno ancora lo immagina, ma il campionato della Fiorentina finisce quella sera, con il sorpasso dei giallorossi al terzo posto.
Gemellati o no, un gesto affettuoso non si nega a nessuno. A Firenze il derelitto Verona va sotto con Zarate. Nella ripresa Pisano si trova in area al momento della distribuzione dei regali e pareggia il conto. Non servirà a salvare i gialloblu, ma ai nerazzurri interisti per riagguantare la Fiorentina al quarto posto sì.
A Frosinone, la vendetta dei gialloblu laziali si consuma partorendo un inguardabile 0-0 che serve solo, anche qui, ad allontanare ulteriormente la Fiorentina dagli obbiettivi dichiarati dai suoi proprietari. Non di recente, comunque, perché il silenzio stampa di un impermalito Della Valle si protrae ormai da settimane.
Continua il mese della solidarietà. Arriva a Firenze la Sampdoria di Vincenzo Montella. Dice lo stesso Paulo Sousa di applaudirlo come merita. Quello che non dice è di regalargli metà della posta in paio. Gran gol di Ilicic vanificato da una dormita collettiva su Alvarez.
Tocca quindi all’Empoli levarsi una soddisfazione attesa da vent’anni al Castellani. Erano i tempi in cui si andava sulla FI-PI-LI in motorino. Adesso si va in macchina, se ne pigliano due da Pucciarelli e Zielinski, e si torna a casa.
A Firenze, arriva il Sassuolo, spauracchio di tutta la serie A. Deve stare peggio di noi, in quanto a condizione, perché ne becca tre: Gonzalo, momentaneo pareggio di Berardi, Ilicic e autorete di Consigli da torneo Viva il Parroco.
A Udine, tocca ai viola confermare la tradizione che li vuole soccombenti alle pendici delle Alpi carniche. Segna subito uno dei tanti Zapata dell’Udinese, pareggia Zarate, vanifica il tutto Thereau.
Una volta Fiorentina – Juventus era l’occasione per riprendersi da campionati mediocri, per giocare la partita della vita. Quella del 24 aprile sembra la partita del cuore. Segna Mandzukic dopo uno sterile predominio territoriale viola. Pareggia Kalinic dopo una faticata immane per bucare la difesa dei campioni d’Italia. Un minuto dopo, su angolo bianconero, vanno in quattro su Tatarusanu, i viola, e nessuno su Morata. Un rigore incredibile concesso al 90° viene sbagliato da Kalinic. Qualcuno comincia a stilare la lista dei non più incedibili, in vista del mercato di giugno. Kalinic c’é. 1-2, e Juventus campione sul prato del Franchi.
Di nuovo a Verona, quartiere Chievo. Altro 0-0 che fa chiedere se sia il caso di mantenere la serie A a 20 squadre. E certi giocatori a stipendio della Fiorentina.
Un altro 0-0 casalingo con il Palermo fa chiedere invece che cosa ci sta a fare l’Ufficio inchieste. Per come va la partita, non ci sarebbe da meravigliarsi se in estate Zamparini facesse qualche pacco dono ai viola.
Si chiude a Roma con la Lazio. Tradizionalmente località e avversario infausti come pochi. Si parte subito sotto, ma poi comincia lo show viola, quattro gol in quaranta minuti: due volte Vecino (era l’ora), Bernardeschi e Tello. Metà cuore gioisce, l’altra metà si infuria chiedendo a lorsignori in viola dov’erano andati a finire negli ultimi due mesi.
Finisce così uno dei campionati più assurdi della storia della Fiorentina. Con una società allo sbando, e una squadra che se n’è accorta da tempo. Diego Della Valle sta dietro a comprare il Corriere della Sera, non una copia ma tutto l’edificio. Forse non ha tempo di leggere i giornali sportivi. Firenze e Casette d’Ete non sono mai state così distanti. L’estate sarà lunga e complicata.


martedì 24 maggio 2016

Il film del campionato viola: Andata verso le stelle

La stagione 2015-16 della Fiorentina comincia con un roboante 2-0 inferto nientepopodimeno che al Barcellona campione del mondo. E’ calcio d’agosto, d’accordo, mancano Messi, Iniesta e Suarez, d’accordo, ma i due gol confezionati dal gioiellino Bernardeschi sono un bel vedere, e riscaldano un cuore viola gelato dalle tante polemiche estive. Pochi giorni dopo, Gonzalo Rodriguez sbanca Londra, e Paulo Sousa si leva una bella soddisfazione contro il suo amico José Mourinho.
Malgrado acquisti mancati e figuracce, nonché cessioni avventate senza ricambio apparente, la Fiorentina si presenta all’avvio del campionato circondata di curiosità. La rosa si è ristretta, ma il gioco appare brillante come ai primi tempi di Montella. O bene bene, o male male.
Si comincia bene bene. Con il Milan in casa alla prima giornata è un 2-0 meno facile di quello che sembra. Gran punizione di Alonso, poi rigore di Ilicic, rimandata la vendetta dell’ex Mihajlovic. Fiorentina sugli scudi, ma solo per una settimana.
All’Olimpico di Torino, Alonso cade vittima del gemellaggio tra le tifoserie. Segna un bel gol, ma commette l’errore di esultare, coi granata non si può. Il vantaggio regge settanta minuti, poi gli ex Moretti e Quagliarella seguiti dal giovane Baselli schiantano una Fiorentina dal fiato corto. Ma ai tifosi dal gemellaggio facile va bene così.
Non si fa in tempo a intrigarsi nelle maglie della perplessità, con il Genoa in casa alla terza risolve una partita spinosa Babacar, tornato l’opportunista dei tempi di Modena.
In settimana, esordio in Europa League, dove la semifinale della stagione precedente è valsa il rango di testa di serie. Il Basilea però non lo sa, e bissa l’impresa del Torino superando nel finale una Fiorentina andata in vantaggio troppo presto. Prima sconfitta casalinga per Sousa, i bagliori estivi sembrano già lontani.
A Carpi, riprende il Baba-show.  E’ una partita dallo spessore tecnico di una Lega Pro, ma sembra in questa fase che almeno quando c’è da fare a sportellate in area e da approfittare di distrazioni di portieri e difese, il senegalese c’é. Non gioca ancora bene la Fiorentina di Sousa, ma lotta e risolve. Per ora va bene così.
Alla quinta, arriva al Franchi il Bologna. Qualcuno si ricorda del ricorso storico, successe anche nel 1968, varrebbe quasi la pena di ripeterne il risultato, se fosse lo stesso anche quello finale in campionato. A scanso equivoci, i viola vincono invece con reti di Błaszczykowski (ex oggetto misterioso venuto da Dortmund) e del bomber venuto da Dnipropetrovsk, Nikola Kalinic.
Tre giorni dopo, a San Siro con l’Inter è scontro al vertice. I nerazzurri, impreziositi da uno Jovetic che alimenta nostalgie e rimpianti nel popolo viola, fino a quel momento non hanno sbagliato nulla. Quella sera tocca invece alla Fiorentina, che gioca come se fosse quella del ’56 e giustizia Handanovic quattro volte. La seconda ha battuto la prima surclassandola, e adesso è prima lei.
Il primo ottobre, con quattro gol ai dopolavoristi del Belenenses (ma il Portogallo è messo peggio di noi in quanto a campionato?) di cui uno particolarmente bello e incoraggiante del redivivo Pepito Rossi, i viola tornano in corsa per l’Europa League.
Al ritorno in Italia, tre giorni dopo è la volta dell’Atalanta a prendere tre scoppole al Franchi. Segna perfino Verdu, dopo Ilicic e Borja Valero. Alla Fiorentina sembra andare tutto bene, l’Inter non ha ancora assorbito il colpo. Quella sera i viola sono soli in testa alla classifica per la prima volta dal 1999.
Si va a Napoli pieni di speranza. La capolista gioca bene, ma il Napoli va in vantaggio con il solito Insigne, che segna poco ma quasi sempre quando vede viola. Pareggia a un quarto d’ora dalla fine un Kalinic che in quel momento sembra Luciano Chiarugi. Subito dopo, sciocchezza di Ilicic che si mette a fare il Pizarro con Higuain. El pipita va a segnare un gol facile facile e riporta la Fiorentina sul pianeta Terra.
Il 22 ottobre, il Lech Poznan, benemerito viola da quando eliminò la Juventus in una Champion’s League di qualche anno fa, mostra il suo lato meno simpatico venendo ad approfittare di nuovo di una Fiorentina da turnover. Inutile il gol di Rossi su rigore al ’90, inutile l’ex salvatore della patria Babacar e tanti altri acquisti sbandierati in estate come panchina lunga.
Completa il trittico infernale la Roma, che alla nona viene al Franchi a risorgere da un avvio incerto. Al sesto subito in gol Mohamed Salah, la pietra dello scandalo estiva. La Fiorentina si butta in avanti in un assedio di Fort Apache sciagurato, settantadue per cento di possesso palla e gol di Gervinho in contropiede nel bel mezzo dell’autostrada senza pedaggio lasciata dai viola nella propria metà campo. Accorcia, al 94’ Babacar.
Alla decima, il povero Verona privo di Toni crolla sotto i colpi di Kalinic. Al Bentegodi il gemellaggio non vale, e la Fiorentina stavolta non fa sconti né regali.
Undicesima di campionato, quattro gol al Franchi al Frosinone tanto caro a Tavecchio e Lotito (e si vede perché). I laziali prendono gol perfino da Rebic, Mati Fernandez e Mario Suarez Mata, gente che segna con cadenze da calendario Maya. Arrotonda Babacar, dopodiché i frusinati se la prendono perché sul 3-0 Sousa fa esordire il terzo portiere Lezzerini, e giurano di vendicare tremendamente al ritorno la mancanza di rispetto.
Tocca quindi alla Fiorentina restituire cortesia e risultato al Poznan, 2-0 in Polonia tutto di marca Ilicic e qualificazione riaperta.
Quindi, a Genova sponda Sampdoria, il 2-0 confezionato con facilità irrisoria dalla banda degli IC, Ilicic e Kalinic, accende i riflettori su una Fiorentina che non solo è ancora capolista ma che gioca un calcio ancora più bello di quello di Montella. E’ vera gloria? si chiede il mondo del calcio italiano. La Juve è indietro, le altre annaspano, se la Fiorentina non facesse altri passi falsi….
E invece li fa, puntualmente. Dopo la sosta per la Nazionale, arriva l’Empoli, che alla fine del primo tempo conduce per 2-0 al Franchi. Nella ripresa entra Kalinic e ne fa due, che per poco non sono tre. Il pareggio salva la faccia ma non la classifica, che comincia ad accorciarsi.
A Basilea, Bernardeschi costruisce, portiere e difesa distruggono. Il pareggio è sufficiente a passare il turno, ma come seconda, non più testa di serie. E in ogni caso, qualcosa pare che cominci a scricchiolare nella macchina da gioco perfetta ammirata fino a Marassi.
A Sassuolo, o per meglio dire a Reggio Emilia, tocca a Borja Valero illudere con un facile gol in apertura. Poi è Fort Apache dei neroverdi, che pareggiano a fine primo tempo e tengono in apprensione i viola per tutta la ripresa.
Il sei dicembre, la Fiorentina regola l’Udinese (ormai post-Di Natale) con un 3-0 confezionato da Badelj (al suo primo centro), Ilicic e Fernandez. E’ il miglior viatico possibile per una squadra viola attesa al turno successivo dalla madre di tutte le partite.
La pratica Belenenses viene archiviata in settimana con il minimo scarto. La Fiorentina saluta la Europa League in attesa della ripresa di febbraio. Decide Babacar, che poi sparirà dai radar per il resto del campionato come il DC9 a Ustica.
A Torino, la Juventus aspetta la Fiorentina reduce da un impetuoso avvio di rimonta. Vuole i tre punti per accorciare ancora. I viola vanno subito in vantaggio con rigore di Ilicic, pareggia immediatamente Cuadrado, che non ha mai goduto di tanta libertà come contro gli ex compagni. Dopo 80 minuti in cui incredibilmente i viola hanno messo in difesa i bianconeri in casa loro, Mandzukic e Dybala approfittano di altrettante boiate della difesa fiorentina e portano la Juve sul 3-1, a meno tre da una vetta in cui la squadra viola non è più sola.
Tre giorni dopo, la Fiorentina fa una fugace apparizione in Coppa Italia. Il Carpi passa al Franchi ed apre una voragine nella parte alta del tabellone in cui si infilerà un incredulo Milan. Prime polemiche in viola, va bene che la panchina è corta per tre obbiettivi, ma questo sembrava il più facile.
L’anno si chiude con un 2-0 sul Chievo firmato Kalinic e Ilicic, la classifica dei cannonieri viola quest’anno è una questione tutta balcanica.
Alla riapertura dei giochi, la facile vittoria colta al Labarbera di Palermo per 3-1 fa dire che stavolta il panettone non è andato di traverso alla Fiorentina. Doppietta di ilicic e Błaszczykowski.
All’ultima del girone di andata, è la Lazio come sempre a rimanere indigesta ad una Fiorentina che lascia troppi spazi ai suoi razziatori. 3-1 biancoceleste al Franchi, con gol velenoso di quel Milinkovic Savic coprotagonista di una delle più grandi farse di calciomercato della storia del football mondiale. Almeno fino a Mammana.
Al giro di boa invernale, non si può non battere le mani ai ragazzi di Sousa per quello che hanno fatto vedere e prodotto nelle diciannove partite appena archiviate (le Coppe, lasciamo fare). Ma non si può non guardare con apprensione verso le stanze dei bottoni di Viale Manfredo Fanti, ora che la palla passa allo staff societario per il mercato di gennaio.
Visibilmente, c’è bisogno di allungare la coperta in casa viola. La società raccoglierà?

venerdì 20 maggio 2016

LA STORIA VIOLA FUTURA



Il Milan a sorpresa batté la Juve nella finale di Coppa Italia, come una gran parte degli scommettitori (orientati da alcuni hints del better leader Gigi Buffon) avevano previsto. In una tragica riunione del board della Tod’s a Casette d’Ete, giunse il responso della Federcalcio: Milan qualificato direttamente alla Europa League, Fiorentina ai preliminari.
Diego Della Valle, che stava registrando negli studios di Casette il suo nuovo spot elettorale: Le Marche sono il mio paese, perché scendo in campo, ebbe uno scatto d’ira e prese una decisione che si sarebbe rivelata fatale. Basta, tengo tutti, anche Gomez e Rossi, perfino Błaszczykowski (a proposito, ma chi diamine è, ma che pago anche questo?), al minimo dello stipendio. Per Salah arriverò fino alla Federazione Interstellare. Tutto il potere a Darth Cognigni, agente 00Sousa con licenza di uccidere. Questa volta si fa sul serio, a costo di sacrificare mio fratello a Baal-Moloch.
L’estate del 2016 per la Fiorentina fu quella che i profeti dell’Antico Testamento avevano annunciato con toni apocalittici. Altro che Gubbio. Arrivarono le cavallette, nel senso che in tribuna stampa chiesero l’accredito perfino il gatto di Cerci e la pantegana che abitava da anni nei gabinetti sotto la Curva Fiesole. I giornalisti c’erano già.
Al preliminare d’andata in casa contro il Vladivostok la Fiorentina si presentò con una formazione così composta: Tatarusanu, Roncaglia, Tomovic, Della Martira IV, Canà, Kikatzé, Restelli (clonato), Rocio Valero (con delega del marito), Gomez, Rossi (Paolo, pronto a tornare in squadra, essendo Mediaworld sponsor accessorio della società), Nonpervenido.
La fortuna non arrise alla squadra viola, che attaccò insistentemente, andando anche in vantaggio ma finendo per perdere 0-6. A fine partita, Mario Gomez dichiarò che l’unico italiano buono è l’italiano morto. Si prese una testata nel setto nasale da Riganò, che transitava lì vicino casualmente. L’intervista degenerò in rissa, qualcuno offese la mamma di Andrea Della valle il quale si chiuse in un silenzio stampa che dura tutt’oggi. Diego invece, non avendo capito che la mamma offesa era anche la sua, iniziò una tribuna elettorale con Lilli Gruber su cui stanno ancora discutendo alla Sorbona di Parigi. Il patron viola dichiarò, tra l’altro: è meglio se scendo in campo e mi tengo un po’ in disparte, non scendo per niente, mi faccio aspettare o mi faccio tenere il posto da Cognigni?
Cognigni, che era impegnato dalla costruzione della Morte Nera negli stabilimenti di Bruzzone Marche (sede del nuovo brand che aveva sostituito Florence Tod’s), dovette rientrare precipitosamente in sede a Firenze (sbagliando anche strada per la desuetudine) e richiamare all’ovile Patrizia Panico della Fiorentina Women’s, altrimenti per il ritorno a Vladivostok mancava il numero legale.
Non ci faremo sorprendere in nessun caso, ripeteva per i corridoi del Franchi Andrea Della Valle. Scansando un manrovescio del fratello, si avviò anch’egli verso il pullman da cui non sarebbe più ridisceso. Risultò disperso lungo la Transiberiana, che aveva scambiato per la tramvia di Scandicci ultimata dal suo amico Renzi. La squadra ne prese altri sei in Siberia, battendo il record della Sampdoria.
A fine agosto, alla vigilia del campionato, Darth Cognigni aveva già licenziato tre allenatori, battendo il record di Zamparini, e sedato due rivolte di piazza, o per meglio dire di piazzalino, quello antistante l’ingresso della Tribuna Autorità. La prematura eliminazione dalla coppa fu seguita da un avvio di campionato  che a fine ottobre vedeva la Fiorentina costruita a costo zero a punti zero. Diego non sapeva più che pesci pigliare. Eppure 'sto Vierchowod l’ho già risentito nominare, mormorava sommessamente guardando l’allenatore che alla fine Darth Cognigni gli aveva messo sotto contratto.
Guerini, chi era costui? ululava alle pareti il manager Rogg aggirandosi anche lui nei sotterranei del Franchi in cerca della pantegana della Curva Fiesole, avendo convocato una conferenza stampa ristretta a cui nemmeno lei si era presentata.
A natale, DDV presentò il suo programma in vista delle elezioni. La Confindustria si incavolò a bestia, avendo dedicato ore alla sua lettura e non avendoci capito una mazza. Dette mandato alla Federcalcio di sanzionare la scheggia impazzita del sistema attaccandolo in ciò che aveva più caro, i 250 milioni di euro investiti nella Fiorentina. Cominciarono a mandare alle partite dei viola arbitri provenienti dal badminton. Durante una trasferta a Crotone, fu squalificato l’autista. I giocatori dovettero tornare a piedi lungo l’Appennino, dandosi alla macchia. Qualcuno, arrivato a Gubbio, ebbe una botta di nostalgia e decise di fermarsi lì.
A maggio, la Fiorentina era stata retrocessa in C4 per indegnità morale. Il titolo sportivo era tornato nelle mani del Comune. Dario Nardella si vide arrivare un giorno in ufficio Eugenio Giani, che gli sparò a bruciapelo: “Ho l’uomo che fa per noi!” Da un passaggio segreto di quelli costruiti dal Vasari, ecco saltare fuori il Mago Zurlì che gridò al Sindaco: “Topo Gigio! Finalmente ti ho ritrovato! Quanti anni!
La crisi istituzionale dura tutt’ora. La Fiorentina invece fu data a prezzo simbolico ad un risuolatore di scarpe di Ponte a Mensola, che in quindici giorni compì il miracolo di rimettere insieme una squadra dal nulla, ed iscriversi al campionato su Vega.
Il resto è storia. Sono 24 anni che la Fiorentina non è più retrocessa, a Gubbio non ha più nevicato, nessuno ha più rivisto il Nardella e il Giani, il piazzamento peggiore è stato il sedicesimo posto, che dà diritto alla partecipazione alla sagra del tortello di Sagginale, senza passare dai preliminari. Il decano dei giornalisti fiorentini presenterà prossimamente le proprie memorie, dal titolo: “Noi siamo questi, la nostra dimensione è questa”. In copertina, il celebre piatto di pappardelle alla lepre trangugiato nell’estate del 2012 a Moena da circa 370 addetti stampa accreditati al seguito della squadra.
Pasqual fece la sua ricomparsa un bel giorno d’inverno, avvolto in un mantello. Gli si parò di fronte uno steward, ai tornelli dello stadio. Lui sollevò la mano, e con l’antica arte manipolatoria delle menti deboli propria dei cavalieri Jedi, disse: “Servi bene il tuo padrone”, invitandolo a farsi da parte.
Lo steward, con voce monocorde da ipnotizzato, gli rispose: “Il mio padrone non so nemmeno chi caspita sia”.
To be continued (purtroppo)

martedì 17 maggio 2016

Il Giorno del Ringraziamento

L’addio di Vincenzo Guerini alla Fiorentina apre una nuova – o forse antica – querelle sul funzionamento della A.C.F., e più in generale sulla gestione della relativa proprietà da parte dei Della Valle.
Guerini, ricordiamo, ricopriva dal luglio 2011 l’incarico di club manager della società di Viale Manfredo Fanti. Una figura societaria molto diffusa per esempio in Inghilterra ma abbastanza desueta nel nostro panorama calcistico. Alla quale gli stessi Della Valle erano peraltro ricorsi in un periodo particolarmente travagliato, in cui erano venuti al pettine diversi nodi anche dal punto di vista dell’organico societario e della distribuzione di compiti e responsabilità.
L’ex promessa del calcio fiorentino (la sua carriera di giocatore fu stroncata a 22 anni da un incidente automobilistico quando il suo futuro si era già tinto di viola e di azzurro) riciclatosi allenatore prima e manager poi ha detto esplicitamente che la sua decisione è nata dai contrasti vissuti nel corso della stagione con l’attuale allenatore viola Paulo Sousa. “Mi ha umiliato”, ha dichiarato senza mezzi termini, lamentando di essere stato completamente ignorato dal tecnico quando nessuno ai vertici societari gli aveva fino ad oggi revocato fiducia ed attribuzione di competenze.
In attesa di capire, magari dalle parole dello stesso Sousa (non particolarmente espressivo in questo periodo, come testimonia la stessa assenza di reazione al trionfo della propria squadra all’Olimpico nell’ultima di campionato) che cosa sia successo esattamente tra due figure chiave della società viola, vale la pena forse di avviare una riflessione sul funzionamento della stessa, in generale e nei momenti di crisi (non pochi) vissuti. Una riflessione che parte da lontano.
Guerini era stato chiamato ad un ruolo che per la verità il popolo viola avrebbe voluto veder attribuito a colui che ha rubato il cuore di questa città, Giancarlo Antognoni (che già l’aveva ricoperto tra l’altro egregiamente ai tempi della gestione Cecchi Gori) proprio per ovviare all’assenza – pesantemente avvertita – di una figura di riferimento tra la stanza dei bottoni ed il mondo del tifo e degli addetti ai lavori.
La sua vicenda è emblematica, a nostro giudizio, della mancanza di idee chiare da parte dell’attuale gestione viola in più o meno tutti i settori della vita di una società sportiva a livello professionistico di vertice, eccezion fatta per l’aspetto contabile, di bilancio, nel quale gli uomini di Della Valle hanno sempre dimostrato di eccellere.
I compiti di Guerini non sono mai stati chiarissimi, ed è indubbio che il manager si sia trovato a volte anche in difficoltà nell’esercitarli, a causa della coabitazione o sovrammissione con altre figure societarie (Cognigni, Corvino, Rogg, Prade’). Va tuttavia riconosciuto a Vincenzo di averci sempre messo la faccia, nel bene e nel male. Così fu quando Delio Rossi costrinse la società ad esonerarlo con i suoi schiaffi in mondovisione ad Adem Llajic. In panchina per le ultime due delicatissime gare di una Fiorentina in lotta per non retrocedere ci andò lui, senza battere ciglio e senza pretendere meriti dopo, come Cincinnato. Così è stato in seguito, si trattasse di presentare giocatori più o meno conosciuti o spiegare al pubblico posizioni societarie controverse.
Comunque siano andate le cose, più che aprirsi una falla nell’assetto societario si ripropone il consueto status quo pressappochistico (almeno nel settore tecnico e della comunicazione) che affligge la Fiorentina dai tempi in cui furono esonerati Gino Salica e Giovanni Galli. Il primo episodio di mancata gratitudine applicata al calcio inteso come business risale proprio al 2004-05, quando la Fiorentina dette il benservito ai due manager del miracolo della rinascita (e già che c’era accompagnò loro personaggi entrati nel cuore della città come Riganò e Mondonico) per affidarsi ad un nuovo che in parte avanzò assai poco (Enrico Lucchesi) e dall’altro dura ancora, anzi con poteri sempre più di vita o di morte (Mario Cognigni).
La breve stagione di Lucchesi fu propedeutica alla lunga stagione di Pantaleo Corvino. Il matrimonio con il diesse pugliese (accreditato come possibile cavallo di ritorno in questi giorni) entrò in crisi guarda caso al settimo anno, quando una famiglia Della valle stretta in un angolo dalla improvvida fine del progetto Prandelli e dai cinque schiaffoni presi dalla Juventus (prima dei due presi da Llajic da Rossi) ebbe bisogno di dare un segnale alla tifoseria avviando una ristrutturazione che sapeva tanto di scelta del capro espiatorio. Corvino fu esautorato tra l’altro nel momento peggiore della sua vita personale. Se ne fece senz’altro una ragione, ma l’immagine della Fiorentina ne uscì ancora più a pezzi.
Immagine che dal 2009 non curava più nessuno. L’esonero brusco di Silvia Berti da addetta stampa fu un fulmine a ciel sereno nell’immediato, e rimane uno dei misteri del ventunesimo secolo viola. Fatto sta che dopo quattro anni in cui la public relation woman elbana era riuscita a rendere simpatica una società che altrimenti non è mai riuscita ad esserlo (e comunicativo un patron che ogni volta che parla in televisione fa venir voglia di cambiare canale) la Fiorentina si trovò – causa del suo stesso mal - a dover coprire la madre di tutte le falle.
Dopo due anni, ecco Gianfranco Teotino, tentativo di imitazione del Pier Cesare Baretti pontelliano. Tentativo riuscito male, il tizio arriva, offende subito Antognoni (non male per un addetto alla comunicazione a Firenze) resiste un anno alla meno peggio e poi se ne va. Nel frattempo Mihajlovic e Rossi hanno preso tutte le colpe di una gestione tecnica scellerata. Arrivano Prade’ e Macia, mentre in panchina va un nuovo progetto, Vincenzo Montella.
Eduardo Macia se ne va dopo un paio d’anni passati a segnalare giocatori che puntualmente compra qualcun altro. Daniele Prade’ gli sopravvive (senza contratto) in attesa di sapere chi gli farà le scarpe nel corso della prossima estate. Montella se n’è andato l’estate scorsa, tutti sanno come e perché. Il suo successore, Paulo Sousa, si viene a sapere che ha vissuto un’invernata da separato in casa (con la squadra peraltro in testa alla classifica), a febbraio si era dimesso (dimissioni respinte), da settembre non parlava nemmeno con il suo club manager. E chissà con chi altro.
Alla lista si aggiunge dunque Vincenzo Guerini. Per oggi la chiudiamo qui, anche per non deprimere troppo il lettore, al quale lasciamo ogni commento. E' un dato di fatto che da Viale Manfredo fanti nessuno se ne va senza sbattere la porta, più o meno. Se questa è una società di calcio…..

lunedì 16 maggio 2016

Sul campo per noi sono tre

Dieci giorni per racchiudere in sintesi tutta la storia della Fiorentina. Dieci giorni che ne hanno cambiato la storia.
6 maggio, sessantesimo anniversario del primo scudetto di Befani, Bernardini, Julinho & c. 11 maggio, quarantasettesimo anniversario del secondo scudetto di Baglini, Pesaola, De Sisti, Amarildo, Chiarugi & c. Poi ci sarebbe anche un 16 maggio, anche questo un anniversario, sono passati trentaquattro anni, ma molti forse non ricordano volentieri da cosa. Potevano essere almeno tre.
1981-82. Tredici anni esatti dall’ultimo scudetto, tanti quanti ne erano passati tra il 56 e il 69. La cabala diceva Fiorentina, il gioco anche. La fortuna e gli arbitri un po’ meno. A metà del girone di andata, il tragico scontro di Giancarlo Antognoni con il ginocchio volante del portiere del Genoa Martina incrinò speranze e certezze dei tifosi viola. Ma la squadra assorbì il colpo e continuò a volare.
Fece partita uguale con la Juve a Torino, e arrivò al titolo d’inverno con un leggero vantaggio, che poteva essere anche maggiore non ci fosse stata la farsa della partita con l’Ascoli sospesa (con i viola in vantaggio) perché pioveva troppo. Oppure altre decisioni discutibili (mai troppo eclatanti, ma ben disseminate tra le varie partite) che gli arbitri adottavano contro i viola.
Al match di ritorno, a Firenze, ormai era un testa a testa alla pari tra noi e la Juve. Finì zero a zero, e la parità perdurò fino all’ultima giornata. Noi andavamo a Cagliari, loro a Catanzaro. Era il 16 maggio 1982. Una giornata che nessuno di noi, almeno nell’inconscio, dimenticherà finché campa. Orgogliosi della nostra squadra, sicuri che almeno lo spareggio nessuno poteva ormai negarcelo. Forse un po’ contratti i giocatori in campo al cospetto di un Cagliari che doveva salvarsi. Forse un po’ ingenui a non pensare, nessuno di noi, che la Juve avrebbe smosso il mondo per attaccarsi sulla maglia la seconda stella. E la Federcalcio, che vedeva di mal’occhio lo spareggio a causa degli imminenti Mondiali di Spagna, si lasciò smuovere.
All’inizio della ripresa venne annullata ad un attonito Ciccio Graziani, senza spiegazioni plausibili, la rete che poteva consegnare lo scudetto a Firenze. Sul fronte opposto, a Catanzaro, al 30' del secondo tempo venne concesso un rigore di quelli che si possono dare o non dare alla Juventus, che permise ai bianconeri di andare avanti di un punto.
Al fischio finale, Firenze si ritrovò dapprima piegata in due da un dolore insopportabile. Poi, come un sol uomo, lanciò il grido che da allora risuona da queste parti ogni volta che si parla della odiata Juventus: Meglio secondi che ladri!
Odiata, sì. Era finita un epoca storica e ne era appena cominciata un’altra. Per la Juventus a Firenze era finita la stagione dell’antipatia. Era cominciata quella dell’odio mortale.

La Fiorentina che non ti aspetti



Vaglielo a dire adesso al popolo viola che è finita qui. Che il campionato è arrivato alla fatidica trentottesima. Ci si rivede a fine agosto, chi c’è c’é. Vaglielo a spiegare, a chi si è sorbito un girone di ritorno che nemmeno le bestie, che la Fiorentina s’è ricordata come si gioca all’ultimo tuffo, quando già Lulic aveva apparecchiato per l’ennesima goleada laziale e qualcuno rispolverava ricordi lontani e meno lontani di un 8-2, di un 4-0 e di altre gite fuori porta nell’amena campagna laziale.
A chi scrive sovviene anche un ricordo di tutt’altro genere. Erano i tempi dell’università, ultimo giorno dell’anno accademico. Allora usava che certi professori più attenti alle frequenze degli studenti pretendessero di firmarne i libretti, come condicio sine qua non alla possibilità di sostenere poi il rispettivo esame. Uno studente porge il libretto al professore, il quale lo squadra e lo apostrofa: lei, mi sembra che sia la prima volta oggi che la vedo in tutto l’anno! Risposta dello studente, imperturbabile: No, professore, c’ero anche ieri. Chiusura beffarda del prof., Ah, peccato finisca oggi, altrimenti potevo vederla anche domani!
Ecco, l’ultimo atto di questa Fiorentina 2015-16 è un po’ così. Dopo un girone di ritorno da retrocessione, una vittoria in undici partite, l’Armata Viola risorge proprio nella circostanza meno probabile. Con la Lazio si piange sempre, o quasi. Nei giorni scorsi un leit motiv della rassegna stampa fiorentina era Firenze attende la nuova figura. Sottinteso, la nuova figura di direttore sportivo. Chissà quanti come chi scrive avranno pensato alla figura che avrebbe fatto la Fiorentina dalle gambe molli e dalla testa svagata all’Olimpico.
Finisce con un mezzo trionfo, invece, come l’anno che in viola c’erano Batistuta, Rui Costa, Oliveira. Il paragone può essere assimilato alla bestemmia, ce ne rendiamo conto. Questa Fiorentina sta a quella di Claudio Ranieri come sta al Leicester sempre di Claudio Ranieri. Tentativo di imitazione da cui guardarsi, come consigliava un noto settimanale di enigmistica.
La Lazio, che di solito la Fiorentina se la magna, stavolta è un fondale di cartapesta, di quelli che allestivano a Cinecittà per le produzioni cinematografiche. Dietro non c’è niente, o quasi. Il popolo biancoceleste spende tutta la propria carica emotiva nel saluto a Miroslav Klose, giunto al passo d’addio dopo cinque anni da queste parti, durante i quali ha finito di consacrarsi come uno degli attaccanti più prolifici di sempre, il Gerd Muller dei nostri tempi. Danke Miro, recita uno striscione in tribuna. Ci si commuove anche a non essere laziali.
La Lazio stasera è tutta lì, nel gol a bruciapelo di Lulic, nel quarto d’ora iniziale in cui si balocca con il pallone credendo di poter prendere a rasoiate come al solito la cicala Fiorentina che prima o poi alzerà bandiera bianca, e nel quarto d’ora finale in cui prova a risvegliarsi, mettendo dentro un Felipe Anderson che Simone Inzaghi lascia incredibilmente a sedere in panca fin quasi alla fine ed un Mauri che subito dopo Klose ha festeggiato anche lui un bel record: 300 presenze in biancoceleste.
Quando segna Lulic, verrebbe voglia di spegnere subito il televisore. E di segnarsi, perché quella povera anima di Lezzerini meritava un esordio migliore (prima vera partita in A della sua carriera, se non si conta la passerella a risultato acquisito che tanto fece inalberare il Frosinone). Poi sovviene la memoria, anche a un campione come Giovanni Galli toccò un esordio drammatico, in pieno 5-1 subito a Torino dalla Juventus nell’anno della retrocessione sfiorata nel 1978.
Lezzerini alla fine sarà tra quelli che smentiscono a testa alta le previsioni più fosche. Una delle note positive di questa nottata romana della Fiorentina. La Lazio smette di giocare non appena la Fiorentina prova a metterci la gamba e un po’ di testa, ma quando prova a ricominciare Lezzerini c’é. Assieme a lui ci sono i soliti Gonzalo (rigore a parte) e Astori, c’è Bernardeschi sempre più padrone del centrocampo e sempre più insidioso nei suoi calci piazzati e nelle sue aperture ai compagni. C’è Tello che stasera più che saltare l’uomo lo mette a sedere e ce lo lascia, come succede a Konko nei momenti cruciali della partita. C’è Vecino, che è un altro che scopre di avere il piede addomesticato per tirare in porta proprio alle battute finali.
Ci sono un po’ tutti, per la verità, non appena la squadra viola si accorge del bluff laziale. Ci vogliono una ventina di minuti buoni ai viola per ricompattarsi, mentre la Lazio esaurisce la voglia di ritardare le vacanze estive. Il pareggio, per quanto rocambolesco nella dinamica, non può dirsi immeritato. Dopo la ribattuta su Mati Fernandez, Vecino lascia partire il classico tiro della domenica. Quando ti va bene va dentro, quando ti va male va a finire alla bandierina del calcio d’angolo. Stasera va bene, e Matias l’uruguaiano toglie lo zero dalla casella dei gol segnati in viola.
Il secondo gol viola è una ipoteca sul futuro, se al futuro qualcuno in casa viola sta seriemente pensando. Tello mette a sedere Konko come la Red Bull di Verstappen ha fatto poco prima con la Ferrari. Il resto è la fotocopia del vantaggio di Bologna, sulla palla si avventa Bernardeschi che come un giocatore di biliardo indovina la carambola giusta.
Siamo viola, siamo nati per soffrire. A quel punto, dopo aver notato che il mister Sousa in panchina per festeggiare la sua squadra in vantaggio non ha ritenuto di muovere nemmeno un muscolo (forse ha bisogno di andare al mare anche lui), ci vien fatto di pensare che se deve finire 8-2 noi i nostri 2 li abbiamo segnati. Proprio allora Bernardeschi restituisce l’assist a Tello, che parte in contropiede e dopo essersi fatto metà campo da solo fulmina Marchetti con la freddezza di un veterano. Che dice, ragionier Cognigni, lo riscattiamo questo ragazzo dal Barcellona? O aspettiamo la telefonata intercontinentale con Della Valle non appena questi riesce a raggiungere una cabina telefonica nel cuore dell’Asia là dove risulta disperso?
Si ricominciano le ostilità nella ripresa con un pensiero sottile che si insinua nella corteccia cerebrale di noi tifosi in cerca di riscatto da un destino di sofferenza: stai a vedere che stasera la goleada si fa noi? Dopo venti minuti di accademia, di Lazio in stato confusionale e di Fiorentina in controllo (con Astori e Gonzalo che sembrano sempre più Scilla e Cariddi, di qui non si passa), al 25’ Mati Fernandez fa la cosa più bella del suo campionato chiudendo un triangolo spettacolare con il Mati che di cognome fa Vecino. Il quale, malgrado sia in piena corsa, si ripresenta davanti a Marchetti e manco fosse Higuain lo rifulmina con un tiro da grande attaccante.
Stasera va bene tutto, è apoteosi viola e notte fonda laziale. Perfino Antonio Candreva saluta (forse) mestamente i suoi tifosi per l’ultima volta dopo una prova opaca lasciando il posto ad Anderson, che perlomeno si dimostra il classico ciuco vivo al posto del purosangue morto. Nemmeno Milinkovic Savic, entrato per Cataldi, ci fa più paura. Nemmeno il rigore che Lulic si procura a un quarto d’ora dalla fine costringendo Gonzalo al fallo appena dentro l’area ci fa paura.
Omaggio a Miro Klose. Anderson va a porgergli il pallone per la trasformazione e l’uscita di scena in bellezza. Il tedesco gli fa un cenno di sobrio diniego, il rigorista sei tu, sembra dirgli. Lo stadio insorge e lo spinge sul dischetto del rigore. Non è neanche il caso di dire che Miro trasforma, aggiungendo anche questo siparietto alla sua leggenda.
C’è spazio anche per un paio di paratone di Lezzerini, a dire no con personalità ad una Lazio rediviva. La sensazione è che stasera la Fiorentina abbia trovato il suo portiere del futuro. Dall’altra parte invece si consuma inutilmente la voglia di rivalsa di Mauro Zarate. Segnare il gol dell’ex in faccia a Lotito sarebbe tanta roba, ma anche la fregola è tanta e l’argentino non ha mai la freddezza giusta a tu per tu con Marchetti.
Finisce così, con un 4-2 su cui nessuno avrebbe scommesso dieci centesimi avanzati al parcheggio, un campionato che la Fiorentina aveva iniziato salendo verso il paradiso e poi aveva compromesso sprofondando verso un probabile inferno. Finisce sugli scudi per una squadra di cui stasera non sappiamo quanti effettivi rivedremo quando sarà il momento di tornare in campo, ad agosto. Oppure prima, se il Milan farà la partita della vita con la Juventus in Coppa Italia.
Già, perché dopo esser stati primi in classifica (accreditati di grandi cose almeno fino alla partita d’andata con la Lazio), adesso non siamo più nemmeno sicuri di non dover fare i preliminari di Europa League.
Grazie di tutto Diego e Andrea Della valle. Vi sia lieve l’estate.

giovedì 12 maggio 2016

Tutto il potere al Ragioniere



Un fulmine squarcia il cielo plumbeo di una Firenze oppressa dalla cappa di questa primavera in ritardo. L’aria è foriera di cambiamenti, elettrica come in prossimità dello scatenarsi di un temporale tropicale. Uno di quelli che lasciano la terra devastata, niente è più come prima, dopo.
Siamo alla ricerca di un incipit per l’articolo. Meglio questo inizio salgariano, tipo Le Tigri di Casette d’Ete, oppure un qualcosa stile Seconda Guerra Mondiale, Das Oberkommand Der Wehrmacht Florentiner….?
Si ride oggi per non piangere (ancora) domani. Dopo aver intrattenuto gli eroi del primo scudetto viola con una conferenza dal tema “Come mai la Fiorentina non può vincere lo scudetto”, dopo aver dimenticato che la Fiorentina ha poi vinto un secondo scudetto (con annessa conferenza bis), il quartier generale Della Valle ha preso una decisione epocale. Alla Fiorentina cambia tutto. Tutto il potere a Cognigni.
Non è uno slogan marxista (nel senso di Karl, oppure di Groucho, come uno preferisce). E’ un nuovo corso aziendale. Il “nuovo” presidente visionerà tutto, deciderà su tutto, sarà più presente a Firenze. Ogni acquisto, ogni cessione saranno decisi da lui. Bracci (o per meglio dire, secondo i malevoli, braccini) destri, Daniele Pradé (senza contratto) e Paulo Sousa (con un altro anno di contratto).
Chi conosce un po’ di cose viola non può trattenere un sorriso, magari amaro. Il ragioniere, da quando una decina di anni fa fu messo da Diego Della Valle a controllare che nel feudo fiorentino nessuno spendesse un fiorino all’insaputa dei signori, non si è più mosso da Firenze. Né si è più mossa foglia che lui non voglia.
Se questo è il cambiamento, la rivoluzione a 360 gradi promessa dai patron, siamo messi proprio bene. E infatti, il buongiorno s’è visto dal mattino. Firenze (dice) chiama Bruxelles per Praett. Bruxelles risponde, la distanza tra domanda e offerta al momento è chilometrica. Fosse una vignetta della Settimana Enigmistica, la didascalia sotto sarebbe “Chi vi ricorda?”.
Tutte le telefonate finiscono a mammana, potrebbe essere un titolo suggestivo della commedia in vernacolo che sta proseguendo in Viale Manfredo Fanti, dopo l’uscita dal cartellone di Benalouane, l’uomo che giocò due scudetti. Sarà che tra marchigiani e fiorentini ci si capisce poco, i dialetti son diversi. Sarà che i Della Valle sono uomini di letture, e tra queste c’è sicuramente il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, è una delle frasi più celebri del romanzo e dell’intera letteratura italiana. E una delle più apprezzate dagli italiani, intesi come cittadini. In questo caso, perché nulla cambi, semplicemente non cambia nulla.
L’abbiamo, una volta di più, buttata sull’ironia. Ma a ben vedere c’è poco da ridere. Il finale di campionato ha mostrato tante cose, la principale è che mentalmente e fisicamente una buona metà dell’attuale squadra è alla frutta. Risorse poche, stimoli zero. Ogni riferimento all’annata di Mihajlovic è assolutamente voluto.
Se a coloro a cui la luce si è spenta aggiungiamo coloro su cui si è accesa quella della plusvalenza, la situazione è allarmante. C’è una squadra da rifondare. C’è un direttore sportivo esautorato da almeno due anni. C’è un presidente che non compra più nemmeno le offerte alla LIDL, spendendo tutto (o quel poco) in bollette del telefono intercontinentali. C’è un allenatore così contento di restare che a gennaio aveva dato le dimissioni, il fratello patron grande gliele aveva accettate, quello piccolo no. Chissà che gli hanno promesso per convincerlo ad onorare il secondo anno di contratto. Non osiamo pensarci, è stato già abbastanza duro a vedersi questo girone di ritorno che si conclude domenica.
Quando qualche mese fa la vita ci sorrideva e tutto sembrava viola, qualcuno lanciò un gioco di società: in quale fontana ti butterai se la Fiorentina vince lo scudetto?”. Qualcuno rispose, nella Fontana di Trevi, visto che l’ultima si gioca a Roma. I pochi che domenica sfideranno l’Autosole, la Lazio ed il tedio per seguire la squadra magari ci si buttano lo stesso. Per disperazione.
Guardiamo il lato positivo. A non vincere nulla il popolo viola quest’anno si è risparmiato un’altra conferenza di Andrea Della Valle, e soprattutto Benalouane che torna trafelato da Leicester per alzare una coppa anche qui. Quando è troppo, è troppo.

lunedì 9 maggio 2016

Onor di capitano

Bandiera vecchia onor di capitano, dice il proverbio popolare. Che risale evidentemente ad un’epoca in cui esistevano ancora le bandiere, e chi le portava con onore.
Manuel Pasqual è stato il capitano della Fiorentina, una bandiera, anzi, un labaro, vecchio di novant’anni, dal 2012 a ieri sera. La sera in cui aveva appena saputo che la sua squadra non aveva più bisogno di lui. Esodato senza preavviso, unica consolazione la passerella finale, gli applausi del pubblico, il trionfo decretatogli da quelli che da stamani sono i suoi ex compagni. Già, perché impegnandosi come se quella con il Palermo fosse una partita vera, come tutte le altre 356 che ha giocato in maglia viola, ha finito per prendersi un giallo che vale una squalifica per l’ultima di campionato. La sua storia in viola finisce qui.
Manuel lotta per un intero pomeriggio contro la commozione. Alla fine, con il microfono di Sky sotto il viso, non ce la fa più. E’ un cazzotto allo stomaco di Firenze vederlo piangere così. Non sarà stato Robotti, non sarà stato Magnini e nemmeno Rogora, ma è stato il sesto giocatore per numero di presenze della storia di questa squadra da quando esiste, a pari merito con uno che si chiama Giancarlo de Sisti. Qualcosa vorrà pur dire. Quando il mister ha chiamato, dal 2005 ad oggi, il soldato Manuel ha sempre risposto: presente.
Vederlo così, sapere che buona parte di quelle lacrime sono dovute alla mancanza di rispetto pressoché totale riservatagli da una società dove lo spessore umano dei suoi proprietari e dirigenti è pari a quello tecnico, fa ancora più male. Né attenua il colpo – a Manuel come ai suoi tifosi – sapere che è in buona compagnia, che allunga una lista nella quale compaiono nomi eccellenti come Gino Salica, Giovanni Galli, Angelo Di Livio, Fabio Liverani, Silvia Berti.
Il ragazzo di San Donà di Piave ha giocato e vissuto per anni a Firenze senza uscire mai da quelle righe che delimitano il carattere suo e di tanti altri ragazzi e campioni provenienti dalla sua terra. Mai una parola fuori posto, mai una spostatura, sempre pronto e mai polemico, neanche quando ne avrebbe avuto ben donde. Perché l’ultimo schiaffo in faccia a Manuel Pasqual non è stato il primo.
Preso dall’Arezzo come una delle migliori giovani promesse del calcio italiano dal Mago di Vernole, quel Corvino che nella primavera-estate del 2005 non sbagliava un colpo, Manuel ripagò tutti con buona parte degli assist che permisero a Luca Toni (bella questa coincidenza, se ne vanno praticamente insieme) di vincere la Scarpa d’Oro nel 2006 con31 gol. Manuel faceva cose che non si vedevano più dai tempi di Cafù, arrivava sul fondo e crossava. Per un centravanti come Lucagol, bastava seguirlo nelle sue discese, con fiducia.
Partita la Scarpa d’Oro, dei suoi cross sembrò non farsene più nulla nessuno. Lentamente il suo apporto fu svalutato, la Fiorentina aveva preso a giocare per altre linee, né Bobo VieriGilardino sembravano aver più bisogno dei suoi traversoni. Nel 2009, l’anno in cui tanti equilibri saltarono in casa viola, un Prandelli forse non più lucidissimo lo escluse dalla lista UEFA in prospettiva Champion’s League, incaponendosi a considerare miglior terzino al suo posto quel Juan Manuel Vargas che invece era una splendida ala. E che insieme a lui sulla fascia sinistra avrebbe fatto sfracelli, in sovrapposizione.
Ridotto quasi ai margini della squadra, in odore di cessione un giorno sì e quell’altro pure, Manuel – come un provetto lagunare, un soldatino della sua terra – inghiottì tutto, continuò ad allenarsi ed aspettò. Certo che un giorno la Fiorentina avrebbe avuto ancora bisogno delle sue corse, dei suoi cross, delle sue punizioni. Della sua leadership in campo, ora che il tempo bene o male trascorso aveva fatto di lui il più anziano della squadra.
Nel 2012, la fascia di capitano coincise con la sua rinascita viola. Vincenzo Montella sperimentava un tiki taka nostrano, ma essendosi ritrovato a disposizione un Luca Toni release 2.0 non buttava via nulla. Il vecchio Pasqual su quella corsia sinistra faceva un gran comodo. E segnava gol pesantissimi, come quello al PAOK che valse il passaggio di turno in Europa League nel 2014, e la finale di Coppa Italia ai danni dell’Udinese sempre lo stesso anno.
Ma un nuovo equivoco era in agguato, oltre al tempo che passa inesorabile. Marcos Alonso era un talento emergente, e forse un giorno qualcuno capirà che al pari di Vargas non di terzino trattasi ma di ala. Nel frattempo però la sua classe e la sua gioventù sono state sufficienti a relegare di nuovo Manuel Pasqual alla panchina, e questa volta per restarci.
Si sospettava che questa fosse la sua ultima stagione. Succede a tutti i campioni, prima o poi. Successe al Milan, per esempio, ad un certo Mauro Tassotti, e la società lo chiamò per tempo ringraziandolo di tutto e offrendogli un posto nello staff tecnico dirigenziale. Gratitudine, indubbiamente, il che non guasta mai nella vita. Ma soprattutto intelligenza, investimento in una risorsa che la società stessa si è allevata in seno, coltivata nel tempo.
C’è solo un capitano, cantava ieri la Curva. Qualcuno si è risentito. Quel coro è riservato a Firenze ad una sola persona, che aveva sulla maglia il numero 10. Tutto il resto è bestemmia, dicono. Forse sì, ma ieri quel coro non stonava. In una cosa sono assolutamente simili il numero uno ed il numero sei della graduatoria delle presenze di sempre in viola: quel viola di loro adesso non sa che farsene. Non più.
La fascia di capitano adesso è in terra. Qualcuno prima o poi la raccoglierà, dimostrandosene degno. Ma adesso giace sul prato del Franchi, dopo che se l’è tolta l’ultimo che l’ha portata con onore.
Si, il ragazzo di Venezia può dirlo con ragione. Firenze è e resterà la sua città. Se l’è meritato.

domenica 8 maggio 2016

Saldi di fine stagione

Un’altra domenica al Franchi, di quelle che Fabio Concato avrebbe definito senza mezzi termini. Bestiale, appunto. Per dovere di cronaca ve la dobbiamo raccontare comunque. Ma siccome non si può descrivere l’indescrivibile, andiamo per forza di cose a cercare argomenti e situazioni di contorno. Sperando di non annoiarvi più di quanto abbia già fatto la vostra squadra del cuore.
Anniversari. Accade che due giorni prima di questo match (chiamiamolo così), che conclude la stagione viola almeno per le partite casalinghe, ricorra l’anniversario del primo scudetto. Quello conquistato nel 1956, il 6 maggio appunto con un pareggio in quel di Trieste, dallo squadrone allenato da Fulvio Bernardini e allestito da un presidente, Enrico Befani, che sicuramente fatturava meno di Diego Della Valle, aveva un “bacino d’utenza” ed una “clientela” assai più ridotta, ma in compenso aveva dimostrato di avere braccia assai più lunghe (ci vuole poco) e testa e cuore che a Casette d’Ete possono soltanto sognarseli. La Curva Fiesole, comprensibilmente, dedica alla ricorrenza una delle sue consuete coreografie. Peccato che stoni completamente con la condizione attuale della Fiorentina, neanche parente alla lontana di quella di sessant’anni fa, con il girone di ritorno a dir poco vergognoso che ha disputato, con la partita che oggi stesso si accinge a giocare. Alla fine, lo spettacolo vira al patetico, e non certo per colpa della Curva Fiesole.
Onori alla maglia. Non è la sola ricorrenza. Al termine di una settimana di polemiche stracittadine come solo Firenze sa produrre in questi tempi di magra, lo stadio rende omaggio a Manuel Pasqual, al suo passo d’addio alla maglia viola che ha indossato per 11 anni e 356 partite, di cui 302 in serie A. Manuel raggiunge Picchio De Sisti nella graduatoria dei più presenti in viola di sempre, e scusate se è poco. Lo stadio gli si stringe attorno con tutto l’affetto e la riconoscenza possibili. Peccato che alla fine di una partita inguardabile il clima sia freddo, e il “vola vola” dei compagni sotto la Fiesole passi non diciamo inosservato ma in un clima di freddezza generale. Del resto, ci ha pensato per tempo la società A.C.F. Fiorentina ad ammantare la celebrazione di gelo come nemmeno nel cartone animato Frozen di Walt Disney. La società che spende in comunicazione più di ogni altra non ne azzecca mai una quando si tratta di comunicare una immagine positiva. Così, dopo aver festeggiato il Benevento al posto del Leicester, si dimentica di accompagnare questo suo affezionato dipendente alla pensione con un minimo di calore e di considerazione. Nemmeno il megadirettore grand uff farabutt lup mann di Fantozzi avrebbe saputo far di peggio. Il Sousa ritornato aziendalista, da parte sua, cosa fa? Ti schiaffa il Manuel in prima squadra contro il Palermo, credendo di fargli cosa gradita e invece coinvolgendolo soltanto nella pessima passerella dei compagni.
Questioni istituzionali. Non vorremmo sbagliarci, ma abbiamo la sensazione che con il famigerato decreto Boschi sia stato abolito anche l’Ufficio Inchieste. In attesa di documentarci meglio, o almeno del referendum abrogativo di ottobre prossimo, ci consoliamo con il fatto che se esistesse ancora un ufficio degno di quel nome, la partita di oggi finirebbe di diritto sul tavolo di uno dei suoi inquirenti. A meno di non voler considerare prova di partita regolare la sforbiciata da Circo Medrano con cui Kalinic calcia sul palo un assist di Bernardeschi (complimenti al funambolo, era più difficile che fare gol, poi dicono che non è preciso…..) e una punizione di Mati Fernandez che aveva telefonato a Sorrentino già dalla partita di andata. A meno di non voler considerare i giocatori viola in campo come undici Zarate: l’argentino se ne parte all’inizio in un paio di discese che rischiano di far saltare lo 0-0, poi qualcuno dei compagni gli deve far notare che non è cosa, ed anche lui si mette a cuccia come tutti gli altri. No, oggi non è cosa, e lo si capisce fin dai primi minuti, appena la radiolina informa del vantaggio della Lazio a Carpi. Un punto noi, un punto loro, tutti contenti. A quel punto la cosa più difficile è far finta per novanta minuti di darsele di santa ragione. Colpire la palla però è rischioso, meglio le caviglie. E così il buon Orsato ti regala una settimana anticipata di vacanze. Vero, Borja Valero?
Questioni aziendali. Dopo la fine dei mondiali di slittino, alla fine ADV e PS1 (Andrea Della Valle e Paulo Sousa) si incontrano per davvero. Ne esce una clamorosa riappacificazione. Sousa proclama al mondo che lui qui ci sta bene (e te credo) e che pertanto ci sarà un PS2. Certo che questi della Valle son capaci di risolvere le situazioni come Cristo di resuscitare Lazzaro. Diego convinse Luca Toni a rimandare il Bayern con un caffè al Bar Stadio. Stai a vedere che convince Nardella a ripartire con la Cittadella? Nel frattempo Andrea, dopo quattro mesi da separato in casa con il suo allenatore (che si sbizzarrisce peraltro a fargli anche i dispetti ogni volta che deve stilare una formazione al punto da strafalcionarne 18 su 19, ad arrotondare per difetto) lo sorprende sulla via non di Damasco ma sicuramente di qualche altra località del Nord Italia o Nord Europa e con uno sguardo dei suoi lo convince a restare più convinto e felice di prima. Ora, delle due l’una: o lo sguardo di ADV – per quanto carismatico possa essere (le telecamere di Sky raramente gli rendono giustizia) – è accompagnato da un bel rinforzo di bigliettoni verdi, oppure, detto in vernacolo, ci pigliano in giro. La questione è semplice: ti trovi al primo posto della classifica a Natale, a quel punto basterebbe che la società ti comprasse un paio di rinforzi decenti, facciamo tre per sicurezza, ma roba da non svenarsi. Arriva invece una banda di soggetti che nemmeno i “cattivi” disegnati dalla Marvel dei tempi d’oro. Ciliegina sulla torta, quel Benalouane che stava talmente male da precipitarsi a Leicester a festeggiare lo scudetto dei compagni. O ex compagni. O futuri compagni. Vai a sapere. Risultato? Finisci quinto perché dietro hai un campionato di morti viventi, il punto più basso nella storia del glorioso calcio italiano dal 1898 ad oggi. Ti viene il dubbio che il tuo datore di lavoro “o ci è o ci fa”? E se non ti viene, non sarai per caso te che “o ci sei o ci fai”?
Scivolata nostalgica nel vintage. Dato che siamo in clima di ricorrenze e celebrazioni, mettiamoci anche questa. I tifosi un po’ più in là con gli anni si ricordano senz’altro quelle ultime partite di campionato di quel tempo che fu, quando le curve scendevano giù dalle gradinate già alla metà della ripresa per essere pronti al fischio finale all’invasione di campo festosa. Un anno la festa finì in rissa, tra i supporters viola che si disputavano non ricordiamo più se la maglia di Mauro Della Martira o quella di Alessio Tendi. Un altro anno portarono in trionfo Beppe Chiappella non per lo scudetto del ’56 ma per la salvezza del ’78. Un altro anno “finì a labbrate”, con la polizia che sparava lacrimogeni ad alzo zero, perché si perse l’ultima con l’Inter campione d’Italia di Bersellini, noi già sicuri di un sesto posto che all’epoca voleva dire Coppa Uefa.
Tempi eroici. Calcio che non esiste più. Non potrebbe esistere, con le norme UEFA ed il politically correct che impera adesso. Ma almeno un Andrea Della Valle si sarebbe guardato bene dal mischiarsi ai tifosi per farsi dei selfie come si è visto oggi. Nessuno gli avrebbe mai torto un capello, per carità. Firenze non è mai stata così cialtrona. Ma di “bischero” – dopo un campionato gettato via così – ne avrebbe presi tanti. E se li sarebbe portati meritatamente a casa.

Domenica si chiude, vivaddio, con la Lazio. Poi, come si suol dire, per i bischeri non c’è paradiso.