domenica 27 novembre 2016

La dura vita dell'allenatore nella Firenze dei Della Valle

La monarchia costituzionale fu inventata nel diciottesimo secolo per sollevare i monarchi dalla responsabilità delle loro azioni, soprattutto da quel certo momento in poi in cui prese piede l’usanza di farla valere sul palco della ghigliottina. In sostanza, il ministro o maggiordomo pagavano e pagano al posto del loro sovrano, mettendoci la faccia e in qualche caso la testa.
La filosofia politica ha fatto tanta strada da allora, estendendo il proprio campo d’azione tra l’altro a tutti quei settori che prevedono l’esistenza di un padrone, di un’azienda, di un fatturato e di azionisti – o quantomeno clienti – a cui rispondere.
Eccoci quindi nel mondo del calcio. Non c’è più un Luigi XVI a cui salvare la testa, ma tanti presidenti-proprietari, padroni assoluti come tanti Re Sole fino al giorno in cui la squadra va male, e allora bisogna dare in pasto alla folla inferocita una testa, appunto. Non di un ministro, in questo caso, ma di un allenatore.
E’ la prima cosa che imparano i presidenti del calcio. L’allenatore sta lì a prendersi gli osanna e le maledizioni dei tifosi. Il Presidente, quello non si tocca mai, non si contesta. Perché….. se va via…..
A Firenze, dal 2002 c’è una squadra – azienda. E avresti detto che aziendalisti come i Della Valle, così precisi e rigorosi nelle altre aziende del loro gruppo, avrebbero rifuggito inorriditi da certi malcostumi tipici del calcio. E invece…..
Gli allenatori a Firenze durano poco, storicamente. Il record di permanenza, sei stagioni, a tutt’oggi rimane legato alla memoria di una figura leggendaria: Fulvio Bernardini, il mister del primo scudetto. Proprio con i Della Valle siamo andati vicini a superarlo, con Cesare Claudio Prandelli, che di stagioni da queste parti ne ha rette ben cinque. Sappiamo tutti com’è andata a finire, “si cerchi un’altra squadra” proprio la sera di Liverpool. Qualcosa non funziona nel rapporto degli imprenditori marchigiani con i loro dipendenti in tuta da calcio. Ce ne accorgemmo allora, quando l’illusione di una proprietà che credevamo diversa svanì nello spazio di una nottata e di un girone di ritorno.
Nel 2002, doveva essere Eugenio Fascetti a guidare la Fiorentina retrocessa in B di Vittorio Cecchi Gori. Ma la B diventò C2, la Cecchi Gori Productions diventò una società fallimentare, ed al suo posto la Giunta Domenici tirò fuori dal cappello messole in mano dalla politica romana il Gruppo Tod’s. Che all’inizio ebbe il merito di inventarsi in soli 20 giorni società e squadra. Giovanni Galli ingaggiò l’ex compagno di quasi-scudetto Pietro Vierchowod, per dare la scalata alla C1.
Pietro durò nove giornate. Allenatori non ci si improvvisa, ed il russo scoprì a sue e nostre spese di non avere l’esperienza ed il carisma per portare Riganò & C. ad una marcia trionfale. Al suo posto fu chiamato il navigato Alberto Cavasin, che in C2 se la cavò egregiamente. Dalla C2 alla B, grazie ai meriti di blasone, il passo però fu troppo breve, e nel febbraio 2004 anche Cavasin fu giudicato non all’altezza del compito. In serie cadetta, la squadra era quattordicesima, Firenze voleva la serie A, l’azienda pure. Arrivò il mister tifoso Emiliano Mondonico, vecchio filibustiere di tutte le serie.
Mondo vinse lo spareggio, ma se ne disperò quasi. Aveva annusato che l’aria di Viale Manfredo Fanti era diventata pesante per lui e per gli eroi venuti su dalla C2. Anche lui arrivò fino al novembre successivo, poi passò la mano a Sergio Buso, allenatore fino a quel momento dei portieri. Il povero Buso resse tre mesi, finendo vittima di logiche di sistema che andavano al di là dei suoi demeriti. La Fiorentina dei Della Valle era stata antipatica da subito all’establishment di quella serie A che aveva appena riconquistato. A Genova finì la partita in otto, tanto per gradire. Altro che cattivi pensieri, come quelli che vennero al Grande Timoniere Dino Zoff. Che comunque portò la squadra in salvo con una rimonta alla Chiappella.
E venne Claudio Cesare, vide e vinse. Quarto posto, Champion’s League e Toni Scarpa d’Oro. Peccato che il conto di Calciopoli arrivò proprio quell’estate. Meno quindici, e tanti avvisi di garanzia. A Folgaria quell’anno al raduno c’era solo lui. Diventò per la Fiorentina una specie di Alex Ferguson, salvando la squadra e portandola al terzo posto virtuale. Ma i Della Valle non tolleravano i Ferguson, al massimo i Cognigni. E quando un bel giorno Prandelli chiese conto dei proclami di vittoria entro il 2011, gli fu risposto dal patron Diego in persona: “lei è l’allenatore? E allora pensi ad allenare”.
A novembre 2009 il giocattolo di Prandelli andò in pezzi. Società improvvisamente demotivata, calciatori che ressero di nervi fino al furto di Ovrebo a Monaco. Poi fu Caporetto, 17 sconfitte stagionali. Prandelli la squadra se la trovò davvero, era la Nazionale, nientemeno. Ad ottobre dell’anno dopo, in visita a Firenze con gli azzurri, Andrea Della valle lo accolse con la storica frase “Un giorno mi ringrazierai”. La risposta di Cesare fu altrettanto storica: “Se vuoi posso farlo anche adesso”.
Sinisa Mihajlovic aveva soprattutto la colpa di venire dopo di lui, l’allenatore più amato dai fiorentini dopo Bernardini, Pesaola e De Sisti. Il serbo aveva poca esperienza, come già Vierchowod dieci anni prima, e non aveva ancora grandi idee di gioco. Pagò per sé e per tutti sempre di novembre (mese maledetto per gli allenatori, viola e non) nel 2011. Gli fu fatale l’ennesimo pareggio in una annata che ne vide un visibilio.
Dentro Delio Rossi, aziendalista senza azienda. Via i campioni a cui si stava spegnendo la luce, squadra che affondava nelle parti basse della classifica. Con il Novara in casa a tre giornate dalla fine, il dramma dei cazzotti a Llajic e dei due gol ospiti che stavano spingendo i viola di nuovo in B. Al risultato ci pensò il reprobo Montolivo. A salvare Rossi non poteva ormai pensarci nessuno. Le ultime due giornate in panchina andò Vincenzo Guerini, anche lui ripagato a tempo debito con un bel calcione nel fondo schiena.
Sotto con Vincenzo Montella, un’altra scommessa. Questa volta vinta, perché fu dotato di giocatori validi, con motivazioni di rivalsa forti. Tre quarti posti a fila, due partecipazioni alla Europa League molto buone (con possibili risultati ancora migliori sfumati per ingenuità, contro Juventus e Siviglia), una Champion’s League mancata di un soffio grazie alla supponenza di Pizarro contro l’infame Montolivo.
Anche Montella, come Prandelli, ebbe l’ardire di chiedere in sede se eravamo questi e questi restavamo, o se invece potevamo fare il benedetto 31 dopo il 30. Gli fu risposto che poteva rimanere al mare. Mentre partiva l’ennesima campagna plusvalenze, la società pescava l’oscuro Paulo Sousa, fresco vincitore del campionato svizzero a Basilea, che la gente però ricordava piuttosto per essere stato uno dei gobbi di Lippi.
La Fiorentina partì a razzo nella stagione 2015-16, la gente perdonò volentieri il gobbismo passato a Paulo Sousa e il depauperamento tecnico del parco giocatori alla società. Fino a Natale la squadra era prima o giù di lì. A gennaio, auspicava il tecnico prima ancora dei tifosi, qualcuno si sarebbe frugato in tasca per rinforzarla e tentare fino in fondo di ripetere qualcosa che non succedeva più dal 1969.
Tino Costa, Kone, Benalhouane. I sogni muoiono sempre all’alba del 1° febbraio, in Viale Manfredo Fanti. Girone di ritorno da scoppiati, come l’ultimo di Prandelli. Fiorentina che terminò quinta con fatica. La gente si aspettava che il tecnico deluso rassegnasse le dimissioni, ma egli preferì lo stipendio e rimase a mugugnare e mischiare le carte già sparigliate dal ritorno di Corvino e dalla ripresa dell’Età d’Oro delle Plusvalenze.
Il resto è storia attuale. Che ci riporta al tema iniziale. Compare lo striscione che inneggia al boia, ma la testa è quella sbagliata. Il maggiordomo ha colpa fino ad un certo punto se il servizio è scadente, non parliamo del governo. I tempi si fanno di nuovo cupi. Dopo 14 anni, l’11° allenatore sta per l’undicesima volta per concludere malamente il suo rapporto con il suo datore di lavoro e nostro patron.

Avrà mai la gente di Firenze il coraggio di consegnare al boia (metaforicamente parlando) la testa giusta? Quella del Re?

sabato 19 novembre 2016

Ricominciamo?

Superchi, Rogora, Mancin, Brizi, Ferrante, Esposito, Amarildo, Merlo, Maraschi, De Sisti, Chiarugi. I ragazzi fiorentini della fine degli anni Sessanta la imparavano a memoria questa filastrocca, più facilmente di eifusiccomeimmobile o di lanebbiaagliirticolli. Era la filastrocca che ripeteva tutte le domeniche lo speaker dello Stadio Comunale (allora Artemio Franchi era vivo e vegeto, e stava in Tribuna d’Onore, si chiamava così, ad applaudire insieme ai suoi concittadini gli eroi del secondo scudetto).
Eraldo Mancin era una di quelle invenzioni dei talent scouts di Nello Baglini. L’uomo che aveva rinverdito i fasti di Enrico Befani, ma con una variante sostanziale: puntava sui giovani anziché sui campioni affermati. La Fiorentina yeye era stata assemblata cedendo nomi che stavano facendo la storia del calcio, Hamrin, Albertosi, Brugnera, ed acquistandone altri che promettevano di farla in futuro.
E la fecero, nell’annata 1968-69 una squadra di una città al di sotto del corso del Po interruppe nuovamente il predomino nordista, cinque anni dopo il Bologna di Fulvio Bernardini. Tra questi ragazzi che diventarono uomini e campioni sotto la Torre di Maratona, nell’anno in cui secondo certi pronostici non proprio fausti avrebbero dovuto lottare per non retrocedere, c’era anche lui, Eraldo Mancin da Porto Tolle (RO).
Preso dal Venezia poco più che ventenne, vinse lo scudetto e poi fu sacrificato alle necessità di bilancio di Baglini, che lo spedì a Cagliari prendendo il più affermato Giuseppe Longoni. Viola e sardi si scambiavano spesso giocatori in quegli anni. A Mancin andò bene, perché in Sardegna vinse il secondo scudetto consecutivo l’anno dopo, impresa riuscita nella storia del calcio italiano soltanto a sei giocatori, tra cui un certo Roberto Baggio. A Longoni andò peggio, due secondi posti. Scherzi della vita.
Se n’è andato a 71 anni Eraldo. Un altro eroe viola che se ne va, la nostra Hall of Fame perde pezzi, mentre il presente stenta a consegnarle nuovi eroi. Domani si gioca con il lutto al braccio.
Non sarà la sola novità in casa viola. Ce ne sono altre, alla ripresa del campionato dopo l’amichevole di lusso, lo scontro di civiltà tra chi mette i calzini bianchi sotto i sandali e chi – per quanto decaduto (ma tutt’ora imbattuto, contro i tedeschi) - fa dell’estetica a volte più della sostanza una questione di vita.
La Fiorentina a cui la Nazionale riconsegna un Astori galvanizzato ed un Bernardeschi forse ancora più frastornato di quanto non lo abbia reso Paulo Sousa, scende in campo contro l’Empoli degli ex Pasqual e Gilardino (circostanza particolarmente dolorosa, per lui e per i tifosi, nel caso di Manuel, capitano e gentiluomo). E lo fa sapendo già quasi ufficialmente di annoverare tra i quadri dirigenziali il nome che tutta Firenze aspettava.
Giancarlo Antognoni sta per firmare da vicepresidente, tutto è pronto. L’Unico 10 parla già da quadro viola, e lo fa con la consueta via di mezzo fra la passione di una vita (la Fiorentina, a suo stesso dire) e l’aplomb quasi britannico con cui da sempre commenta e gestisce le cose del calcio.
Firenze vorrebbe gioirne, e invece è preoccupata, almeno a livello delle correnti sotterranee del tifo che attraversano la città come i percorsi avventurosi dell’Inferno di Dan Brown. Antognoni non si discute, né lui del resto farebbe mai nulla per farsi discutere, c’è da giurare. Come manager, dette già ottima prova di sé ai tempi di Vittorio Cecchi Gori. Ma il fatto è che adesso gli viene chiesto di mettere la faccia per coprire quella abbastanza dimessa – diciamo così – di una società che definire prossima ad un nuovo anno zero è usare un eufemismo.
La Fiorentina sarà anche sembrata in ripresa grazie al lavoro del suo allenatore, come l’ha vista il nostro neo vicepresidente. In realtà, per i suoi tifosi è stata più che altro motivo di noia quando non di ansia e di agonia. Nessuno si sogna di dire ad una persona del carisma e dell’intelligenza umana e calcistica di Antonio cosa è opportuno dire e fare, ma insomma non vorremmo che la nostra migliore bandiera fosse usata, sventolata per distrarci, mentre gli eroi sbiaditi dell’ultima generazione senza più bandiere continuano a far danni in campo, e mentre altri manager sicuramente meno bene intenzionati di Giancarlo continuano a farne di peggio nella stanza dei bottoni.
Insomma, tra una bandiera che salutiamo per l’ultima volta ed un’altra che abbiamo quasi paura ad impugnare di nuovo per non rovinarla, la Fiorentina ritrova il campionato, cercando di dimenticarsi e di far dimenticare quanto problematico e scialbo, per non dire peggio, fosse prima della sosta del calzino bianco.
Empoli è un campo amico soltanto in apparenza. D’accordo, ci si va perfino in motorino, è quasi più trasferta San Piero a Sieve durante la preparazione estiva. Ma gli empolesi aspettano questa come la partita della vita. L’anno scorso, con un organico più forte loro ma anche e soprattutto più forte noi, ci tolsero quattro punti su sei, e nominalmente si lottava per il vertice. Non è il caso di aspettarsi gite fuori porta e scampagnate, il presidente Corsi ci manderà di traverso il pranzo più che volentieri, se appena può. Per poi tornare magari ad ammorbidire il tackle in occasione della visita di compagini provenienti da metropoli fuori regione. Ma questo è un problema suo.
C’è un 2016 da concludere mandandolo in archivio con un connotato meno pessimo di quello registrato fino ad oggi, tra la fine del campionato scorso e l’inizio di quello attuale. Preparandoci poi al solito mese di gennaio da Pantoprazolo. Quest’anno non ci sono tesoretti, il che vuol dire che a inizio anno nuovo si vende per far cassa. Le profezie millenaristiche circa lo stadio nuovo dovrebbero avere un rigurgito sempre nello stesso periodo, anche se il ping pong Cognigni Nardella francamente comincia a stancare anche più del gioco di Sousa. Per rivedere la Fiorentina come ai tempi del compianto Eraldo Mancin, i tempi sono storici, e non è detto che sia una storia si compirà nell’arco delle nostre vite.
Radiomercato vuole il Chelsea di Antonio Conte interessato fortemente a Milan Badelj, come terzo incomodo del duo cino-milanese, e anche a Nenad Tomovic. Mentre le sirene di mercato risuonano nuovamente a proposito di Federico Bernardeschi. Sensazione è che anche stavolta se Ulisse non si lega al timone della nave…..

Giancarlo Antognoni si è assunto un compito assai difficile.