L’ultimo giorno di mercato
all’ultimo minuto arrivò Błaszczykowski. La moltitudine dei tifosi
era già maldisposta verso una sessione di calciomercato da spending review,
cosicché il solito spiritaccio fiorentino ebbe buon gioco a prevalere. Siccome
alla Fiorentina comandano i ragionieri, disse qualcuno, d’ora in avanti non si
va a trattare i giocatori per nome, ma per direttamente codice fiscale.
C’è da capirli, i tifosi. Già si
domandano chi è stato comprato e che cosa se ne farà la Fiorentina. Se poi ci
si aggiunge anche il nome impronunciabile, buonanotte. A Firenze il nome è
fondamentale. Se ti chiami Franca, come faceva di cognome un brasiliano di
diversi anni fa, o Letizia come l’esterno del Carpi, bisogna che tu giochi
proprio bene altrimenti le battutacce partono a ruota libera. Per non parlare
del povero Evacuo, che non sopravvisse ai tempi eroici della C2.
Se hai un nome che ricorda un
codice fiscale o un’iscrizione del Codice di Hammurabi prima che fosse
decifrato, la gente ti sopporta solo se fai un campionatone. In tal caso, in
qualche modo si limita a ribattezzarti, invece di sfotterti a morte, te e chi
t’ha comprato. Il passato viola presenta qualche esempio. Il prode Tomas
Ujfalusi diventò ben presto “Falugi”, per carità di patria. Molti lo
rimpiangono ancora, nessuno sa come si pronunciasse esattamente il suo nome.
Più indietro nel tempo, prima del
Grande Freddo di Gubbio, il Presidente Cinematografaro pensò bene di fare ai
tifosi un regalo, avendo incassato più del previsto dal suo ultimo film. “Con i
soldi del Ciclone ci hai comprato il ciliegione”, cantava la Curva Fiesole. Il
ciliegione era il bravo – e sfortunato – Andrej Kancel’skis, centrocampista
ucraino che fece sognare il popolo viola almeno finche il più pronunciabile ma
meno aggraziato Taribo West non lo levò di circolazione. Ovviamente, per
comodità di spelling Andrej era stato ribattezzato “Cancello” dai poliglotti
fiorentini.
Più indietro ancora, la madre,
anzi il padre di tutti gli Impronunciabili era stato presentato allo sbigottito
pubblico viola dal Conte Pontello prima maniera. Quello che voleva soppiantare
i “metalmeccanici” di Torino e non badava a spese.
Pietro Vierchowod era figlio di
un soldato dell’Armata Rossa sovietica fatto prigioniero dall’A.R.M.I.R. di
Mussolini. Uno dei pochi, incredibile ma vero. Internato in provincia di
Bergamo, alla fine della guerra si rifiutò di rientrare nella patria vittoriosa
ma un tantino Oltre Cortina (di Ferro, non d’Ampezzo) e mise su famiglia in
Italia. Il figlio si rivelò ben presto una promessa del calcio nostrano.
Difensore tra i più arcigni che si ricordino, fu acquistato da lungimirante
presidente della Sampdoria Paolo Mantovani dal Como, che non potendo
sacrificarlo in serie B (dove i doriani militavano all’epoca, era il 1981) lo
dette in prestito all’emergente e rampante società viola di Pontello.
I tifosi fiorentini ci misero
poche partite a capire di avere in squadra un campione, che fu determinante nel
rendere il reparto difensivo viola pressoché impenetrabile e la squadra nel suo
complesso capace di contendere alla Juventus stellare di quegli anni lo scudetto
1982 fino agli ultimi minuti dell’ultima partita, e che non a caso fu
selezionato da Enzo Bearzot nella Nazionale che sarebbe diventata campione del
mondo in Spagna quello stesso anno. Quegli stessi tifosi ci misero in compenso
un’intera annata a capire come si pronunciava quel nome impossibile, preferendo
ricorrere alla fine allo stereotipato ma tranquillo soprannome che Pietro già
si portava dietro: “il Russo”.
Alcuni, i più ardimentosi,
tentarono invece il salto mortale linguistico. Nei capannelli fuori dello
Stadio ed al Chiosco degli Sportivi lo stopper bergamasco divenne Virvùd.
L’importante era capirsi, oltre al fatto che a Pietro Virvùd quell’anno non
c’era attaccante che riuscisse ad andare via.
Il clou fu raggiunto dal mitico
speaker dello Stadio Comunale, quello che dopo aver sciorinato la domenicale
litania degli sponsor (“Gioffreda la casa arreda”, “Bulova l’orologio dell’era
spaziale”, “Da Renato Pecchioli gomme per auto” e via dicendo) introduceva
l’apoteosi dell’entrata in campo della squadra leggendone la formazione. Tutto
bene fino al numero quattro, il libero Roberto Galbiati. Al numero cinque il
momento critico: “VIRK…….”. Seguono istanti di silenzio, un intero stadio in
sospensione. Finché, dopo una interminabile apnea: “……..OVOD!”
Se non venne giù lo stadio fu
perché era stato costruito bene, e del resto regge tutt’ora il peso dei tanti
tifosi e dei nomi dalla difficile pronuncia. Pietro Virvùd rientrò a Genova
alla fine di quella bella e maledetta annata. Mantovani lo girò alla Roma che
grazie anche alla sua diga difensiva vinse lo scudetto l’anno dopo. Noi a
Firenze lo rivedemmo a fine estate 2002. Il Russo tentava la carriera di
allenatore, la Fiorentina, o Florentia Viola, di risalire dal baratro in cui
l’aveva precipitata il fallimento di Vittorio Cecchi Gori.
Durò poco, ancor meno di quanto
era durato da giocatore, almeno in viola. Pochi mesi e il buon Pietro dovette
lasciare il posto al più esperto Cavasin. Ci riprovò un altro paio di volte, a
Trieste e Budapest, prima di realizzare che la panchina non era il suo pane. Ma
in quell’annata in cui tutto doveva andare a finire diversamente diventò quasi
un eroe del Calcio Viola. Prese meno gol di quanti sapevano pronunciare il suo
nome. Lo speaker dello stadio fu forse l’unico però a non rammaricarsi quando
alla fine tornò a Genova.
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