La prima buona notizia della
giornata è che lo Stadio Franchi ci mette un istante a risolvere l’atroce
dilemma propostogli alla vigilia da Andrea Della Valle. A sei anni di distanza,
il minore dei proprietari della Fiorentina tenta di ripetere il giochino
azzardato dal fratello maggiore contro Cesare Prandelli, e lo fa con lo stesso
stile.
A distanza di sei anni esatti,
Firenze mostra di non starci neanche questa volta. Quando Vincenzo Montella fa
il suo ingresso sul prato dello stadio che era suo, parte immediatamente una
standing ovation unanime ed inequivocabile, che vale da sola più di tutte le
parole spese in settimana da una proprietà non proprio sintonizzata sulle
lunghezze d’onda cittadine e da tutti coloro – addetti ai lavori e tifosi - che
si sono affannati a giustificarla e sostenerla nel tentativo di mascherare
delusioni passate e presenti con una montagna di promesse che hanno il
principale difetto di suonare soprattutto come già sentite. E scarsamente
mantenute.
Firenze per una volta non si
divide, e seguendo il consiglio di Paulo Sousa, colui che ha raccolto il
testimone viola dal collega passato nel frattempo sotto la Lanterna e che lo
sta tenendo in pugno con alterne fortune ma senza dubbio con grande
signorilità, applaude senza riserve né ritegno Vincenzino. Il quale
contraccambia, vistosamente emozionato, e va a sedersi su una panchina diversa
da quella verso cui istintivamente in quel momento forse si sarebbe diretto.
E’ una buona notizia, finalmente,
proprio nel momento in cui ogni rumore cessa, l’aria stessa si ferma immobile a
commemorare la scomparsa di uno degli ultimi grandi del nostro calcio, Cesare
Maldini. Lo stadio che tributò le debite onoranze all’ultima partita giocata da
suo figlio si raccoglie commosso a celebrare il padre, fiero e sportivo avversario
di una Fiorentina di altri tempi, quella di Befani che si contendeva con il
Milan del Gre-No-Li lo scudetto e poi andava a giocare la Coppa dei Campioni
contro il Real Madrid. A ripensarci oggi, anche alla luce dei novanta minuti
che stanno per seguire, viene quasi da piangere
Addio Cesare, addio grande calcio
che fu. Questo 2016 è veramente una carogna, ci sta facendo a pezzi i nostri
miti. Lasciandoci alle prese con una realtà da cui forse vorremmo fuggire, a
prescindere dall’aver ascoltato o meno l’ultima conferenza stampa di Andrea
Della Valle. Lasciandoci alle prese con un’altra di quelle partite che non
parlano né dei sogni di Cognigni (anche i ragionieri sognano) né delle marce
trionfali immaginate dal suo datore di lavoro.
Si profilano tempi duri per la
Fiorentina contro la Sampdoria, è chiaro fin da prima del fischio d’inizio dell’arbitro
Gervasoni (ottima direzione di gara la sua, praticamente perfetta, tanto da far
dubitare che fosse lo stesso che due anni fa quasi querelò Borja Valero
chiedendogli i danni per la “famigerata” spinta). Alla trentunesima giornata la
squadra viola ha poco ancora da chiedere a questo campionato. Svaniti i sogni
di gloria, tra quarto e quinto posto non passa nessuna differenza. Scendere al
sesto semmai comincerebbe ad essere una seccatura, perché ci sarebbe da fare il
preliminare di Europa League, con tutti i rischi del caso. Ma il Milan, che non
è più quello dell’epoca di Maldini padre e nemmeno di Maldini figlio, sta
facendo di tutto per tranquillizzare una squadra viola che di energie fisiche e
psichiche non ne ha quasi più.
E’ una giornata quasi da fine
campionato, e non solo per la temperatura finalmente primaverile. Una di quelle
in cui ai tempi eroici si aspettava solo il fischio finale per l’invasione di
campo e la caccia alla maglia di Desolati, Della Martira, Casarsa. Dall’altra
parte del campo c’è una Sampdoria invece tutt’altro che tranquilla che non può
permettersi altre battute a vuoto. E soprattutto c’è lui, Vincenzo Montella,
che ha tutte le motivazioni del caso (classifica a parte) e tutte le risorse
adeguate per sostenerle.
La Fiorentina, infatti, tolti i
primi venti minuti in cui pare ritornata quella dell’andata (la partita di
Genova sponda Samp fu l’ultima in cui fu consentito di ammirare la squadra
viola in versione San Siro sponda Inter, l’ultima da capolista – per capirci –
prima della lenta ma costante involuzione), a metà del primo tempo comincia ad
annaspare, lasciando per la prima volta da tempo immemorabile il possesso palla
in appannaggio del suo avversario.
Il fatto è che la Fiorentina oggi
gioca contro il suo babbo. Colui che l’ha inventata, e ne conosce tutti i
segreti. Paulo Sousa tenta di sparigliare le carte dando fiducia al figliol
prodigo Babacar in luogo dello squalificato Kalinic. In attesa di sapere che
cosa ha tenuto fuori di squadra quest’oggi un Bernardeschi reduce dalle buone
prove con la Nazionale, si può addirittura apprezzare il suo tentativo di
cambiare pelle ad una squadra che rischia di giocare contro lo specchio. E di
farsi male.
Il fatto è che Vincenzo Montella
questi giocatori li conosce tutti ad uno ad uno. E questa squadra nel suo
complesso. Per non parlare dei suoi schemi. Non foss’altro perché glieli ha
dati lui, per quanto Paulo Sousa abbia tentato poi di perfezionarli o variarli.
L’Aeroplanino plana tranquillo sul prato del Franchi. Lui sa bene che con il
pressing alto la Fiorentina perde tanto del suo potenziale. In particolare questa
Fiorentina, che ha un gran bisogno di andare al mare e gettarsi questa stagione
alle spalle, più di tutte quelle del passato di cui lui stesso è stato parte.
L’unica novità, Tino Costa al
posto di Vecino, non è tale da poterlo sconcertare. Semmai è Tello, ritornato
padrone della fascia destra, a causare qualche problema all’altro ex che gli
mette addosso, Diakité (saranno cinque in campo in totale, contando anche
Viviano, De Silvestri, Cassani e Quagliarella). Sulle fasce, lo spagnolo e il
connazionale di sinistra Marcos Alonso sembrano poter creare problemi alla
difesa doriana. In mezzo, dietro a Babacar che fa a sportellate senza gran
costrutto con Ranocchia, Ilicic e Borja Valero sembrano tornati quelli di
inizio stagione.
L’illusione almeno è quella,
favorita dall’invenzione con cui la Fiorentina passa in vantaggio al ’23. Il
triangolo tra lo sloveno e l’iberico è splendido, di quelli che avremmo sempre
voluto vedere tra loro due. Ilicic si ritrova davanti a Viviano che non ha
tempo di esitare: la battuta di prima del numero 72 viola non perdona. A quel
punto, Fabio Quagliarella ha già sfiorato il primo dei suoi ennesimi gol dell’ex,
ma la Fiorentina pare poter controllare questo match ed aspettare l’occasione
per chiuderlo.
Ecco che invece Firenze si
accorge – o perlomeno si ricorda – che Montella non era poi da buttar via come
allenatore. La Samp si impadronisce del pallone imponendo il suo tiki taka a
chi ne era maestro, e la Fiorentina quel pallone lo rivede soltanto al ’38,
quando finisce nella rete di un Tatarusanu buttatosi in ritardo sul gran tiro
da fuori di Ricardo Alvarez, al termine di un’azione insistita nel corso della
quale Babacar aveva reclamato per un fallo inesistente.
Nella ripresa entra Vecino per
Tello e poi Zarate per lo strappato (e fischiato) Babacar. Ma la musica cambia
poco. Il solo Ilicic dimostra di esserci ancora con un gran tiro al volo parato
da Viviano ed una punizione stampata sulla traversa. Il solo Zarate cerca di
stargli in qualche modo al passo cercando soluzioni personali, per forza di
cose. Il resto della squadra non c’è più, ed alla fine la traversa colta a sua
volta da Fabio Quagliarella con la complicità decisiva di Tatarusanu certifica
che c’è poco da recriminare. Il gol al 95’ di Marcos Alonso è in netto fuorigioco
e viene giustamente annullato. La Samp, che è in dieci da metà ripresa per una
ingenuità di Correa, non avrebbe meritato di perdere. Montella merita di
portarsi via questo punto, assieme agli applausi dei suoi vecchi tifosi.
Che cosa merita Andrea Della
Valle, che abbandona la compagnia in silenzio appena Gervasoni fischia la fine,
lo giudichi ognuno. La seconda presidenza per durata della storia viola
conclude l’ennesima stagione senza vittorie, proprio nell’annata in cui la
squadra era sembrata finalmente in grado di cavalcare in testa al gruppo, se
opportunamente sostenuta da una società dalle braccia finalmente distese e dal
portafoglio tenuto in mano ben aperto. Che cosa fa più rabbia, se questa mesta
conclusione o le irrealistiche e beffarde dichiarazioni presidenziali che l‘hanno
corredata, anche questo lo decida ognuno per suo conto.
Noi preferiamo salutare ancora e
per l’ultima volta Cesare Maldini, che da stanotte gioca in cielo con Cruyff ed
altri grandissimi del passato, ed inviare un abbraccio al figlio Paolo che lo
piange. Sono stati grandi campioni entrambi. Hanno avuto anche grandi
presidenti. Milano felix. Che invidia.
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