Era una sera di dicembre del
2009, uno dei giorni immediatamente successivi a quello in cui Alberto
Gilardino aveva segnato uno dei gol più importanti della storia viola. Ad
Anfield Road a Liverpool, lo stadio in cui non si cammina mai da soli, la Fiorentina
aveva eliminato il Liverpool dalla Champion’s League qualificandosi agli ottavi
di finale. Dopo anni di magre e di sofferenze seguite al gol di Batistuta a
Wembley contro l’Arsenal, di nuovo l’Inghilterra sembrava dare il via ad una
nuova epopea viola. Il futuro sembrava roseo. Anzi, di più.
Fu proprio allora che un
personaggio di spicco della società ACF Fiorentina (si dice il peccato e non il
peccatore, ma tutti sanno che si trattava di un ragioniere con qualifica di
plenipotenziario fiduciario del patron Diego della Valle) avvicinò il tecnico
Cesare Prandelli prendendolo da una parte e sussurrandogli poche ma micidiali
parole, tali da stroncargli dentro qualunque euforia e voglia di festeggiare lo
storico successo.
“Lei può cercarsi un’altra
squadra”. Prandelli aveva già intuito che il ciclo, il progetto, per usare una
terminologia cara alla proprietà, di cui era stato protagonista fino a quel
momento, era alla fine. Pochi mesi prima, alla richiesta di quei rinforzi che
avrebbero consentito di mantenere la promessa di vittoria entro il 2011 si era
sentito rispondere dal Capo in testa “lei pensi ad allenare la squadra”. A
luglio, la public relations woman Silvia Berti, uno dei personaggi qualificanti
il progetto, era stata invitata dall’oggi al domani a fare le valigie e
sgomberare i locali occupati nella sede viola. A settembre Andrea Della Valle
aveva sclerato improvvisamente dando le dimissioni da presidente, proprio nel
momento in cui sembrava entrare nella fase cruciale la trattativa con il Comune
per la Cittadella ed il nuovo stadio.
Il vento era improvvisamente
cambiato sotto la Torre di Maratona. Ed era un vento di tempesta, per quanto in
quel momento ancora “montante”. Il clima da marcia trionfale faticosamente
ricostruito dopo la bufera di Calciopoli veniva spazzato via improvvisamente e incomprensibilmente.
Prandelli non ci mise molto a capire che era il caso di seguire quel consiglio
sibilatogli dal Ragioniere mentre Firenze era in festa per il trionfo più
prestigioso non solo dell’Era Della Valle.
Da quel momento, non passò giorno
senza che una stampa più o meno interessata lo vedesse a cena con questo o
quell’emissario di squadre più o meno importanti. Soprattutto con quelli della
squadra a cui a Firenze non si perdona nulla. Chissà quanti chili Roberto
Bettega e Cesare Prandelli avrebbero dovuto mettere su in quei mesi invernali
se avessero cenato insieme tutte le volte di cui fu dato conto su giornali e
siti web in quel periodo. “Il peccato è nell’occhio di chi guarda”, diceva l’Inquisitore
Torquemada (che se ne intendeva). Ma “il tifoso è tifoso perché non vuole
pensare a niente”, ha affermato a ragione in epoca più recente Oliviero Beha.
Molti tifosi caddero nella trappola tesa da una sedicente stampa sportiva
indipendente. Prandelli in fondo era stato un “gobbo”. Perché non credere ad un
suo ritorno alla Casa Madre?
Quando ad aprile Diego della
Valle scelse la via del confronto-scontro pubblico sbottando in pieno Bar Stadio
contro il suo stipendiato fedifrago, la città si divise. DDV ebbe meno consensi
di quanti i sondaggi gliene avrebbero attribuiti, ma comunque più che
sufficienti a creare un partito, destinato a contrapporsi ai “rosiconi”.
Dellavalliani da una parte (o “leccavalle” come vengono chiamati
sprezzantemente dagli avversari), rosiconi dall’altra, Firenze si accinse a
nuovi cicli, nuovi progetti e nuove promesse avendo ritrovato il familiare e
più congeniale terreno dei Guelfi e Ghibellini su cui si era dilaniata con
estrema voluttà fin dal medioevo.
Cinque anni dopo, toccò ad un
nuovo ciclo ritrovarsi strozzato proprio nel momento che sembrava quello del
decollo. Dopo tre anni di calcio spettacolo e di risultati promettenti, la sera
in cui la Fiorentina si arrestò n semifinale di Europa League cedendo al
Siviglia che poi avrebbe vinto il trofeo Vincenzo Montella scoprì di non avere
più il sostegno né della proprietà né di quella parte della tifoseria con essa
schierata senza se e senza ma.
Alla sua richiesta di nuovi
acquisti che consentissero il benedetto salto di qualità (al quale in quel
momento di nuovo sembrava mancare davvero poco), non gli fu risposto come a
Prandelli ma evidentemente le espressioni facciali furono le stesse. Vincenzo
partì per le vacanze estive, dalle quali fece sapere che il suo era un
biglietto di sola andata. La società nel frattempo aveva già spedito emissari a
Chiasso, direzione Basilea. Obbiettivo, il terzo progetto, la terza scommessa
(anzi, quarta, contando quella su Sinisa Mihajlovic abortita subito): Paulo
Sousa da Viseu, Portugal.
Comunque uno giudichi tali eventi
e la situazione che ne è seguita, era lecito aspettarsi una relativa
tranquillità per almeno i tre anni che solitamente dura un ciclo dellavalliano.
Macché, alla fine di gennaio dell’anno successivo (quello in corso) siamo già
alle porte coi sassi. Uno stralunato Paulo Sousa ancora in corsa spasmodica per
non perdere contatto con un primo posto in classifica insperato e storico, si
vede recapitare dal calciomercato tali Kone E Benaluoane. E capisce forse che
la squadra è bene cercarsela ancor prima che qualcuno abbia la brillante idea
di sollecitarlo in tal senso.
Ecco che i ristoranti di Firenze
tornano a popolarsi di allenatori viola cospiratori, misteriosi emissari
stranieri, giornalisti appostati come agenti segreti (a proposito, ma quanto
mangiano questi giornalisti? sempre a cena fuori?). Dettagliati reportages di
cene carbonare (nel senso del mistero che le ammanta, non del menu) si
alternano a proclami di rivincita e ripartenza in tromba societari.
Tutto, meno quello che la
professione giornalistica imporrebbe: dare conto delle condizioni e delle
prospettive di questa Fiorentina. Una squadra con l’organico ridotto all’osso,
il morale e la concentrazione già inesistenti alla fine di marzo, la
prospettiva di rinforzarsi nascosta nelle pieghe di un autofinanziamento in cui
le plusvalenze della Fondazione Corvino sono ormai agli sgoccioli.
Ci sono ancora sette partite da
giocare, e non vorremmo che andassero a finire come quelle che conclusero l’ultima
stagione di Prandelli. Per un totale di diciassette sconfitte, propiziate da un
ambiente – quello viola – che aveva già mollato da tempo ma che pretendeva di
darne tutte le colpe all’allenatore. Errori di formazione a parte, dobbiamo
dire comunque grazie a Paulo Sousa per la professionalità con cui sta portando
a una decorosa conclusione di stagione il baraccone viola ex sorpresa di questo
campionato.
Poi sarà di nuovo il tempo delle
tagliatelle ai funghi e dei proclami (se a vuoto, lo diranno i posteri), delle
scommesse e delle promesse, delle plusvalenze e degli autofinanziamenti, degli
scudetti di bilancio, dei bacini di utenza, dei vorrei ma non posso (anche se
sono il decimo nella classifica dei patrimoni italiani, o giù di lì).
Si parla di Giampaolo sulla
panchina viola. Forse, visti i precedenti, sarebbe più adatto Giambattista
Vico. Quello dei corsi e ricorsi.
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