La monarchia costituzionale fu inventata nel diciottesimo secolo per
sollevare i monarchi dalla responsabilità delle loro azioni, soprattutto da
quel certo momento in poi in cui prese piede l’usanza di farla valere sul palco
della ghigliottina. In sostanza, il ministro o maggiordomo pagavano e pagano al
posto del loro sovrano, mettendoci la faccia e in qualche caso la testa.
Eccoci quindi nel mondo del calcio. Non c’è più un Luigi XVI a cui
salvare la testa, ma tanti presidenti-proprietari, padroni assoluti come tanti Re
Sole fino al giorno in cui la squadra va male, e allora bisogna dare in pasto
alla folla inferocita una testa, appunto. Non di un ministro, in questo caso,
ma di un allenatore.
E’ la prima cosa che imparano i presidenti del calcio. L’allenatore
sta lì a prendersi gli osanna e le maledizioni dei tifosi. Il Presidente,
quello non si tocca mai, non si contesta. Perché….. se va via…..
A Firenze, dal 2002 c’è una squadra – azienda. E avresti detto che
aziendalisti come i Della Valle, così precisi e rigorosi nelle altre aziende
del loro gruppo, avrebbero rifuggito inorriditi da certi malcostumi tipici del
calcio. E invece…..
Gli allenatori a Firenze durano poco, storicamente. Il record di
permanenza, sei stagioni, a tutt’oggi rimane legato alla memoria di una figura
leggendaria: Fulvio Bernardini, il mister del primo scudetto. Proprio con i
Della Valle siamo andati vicini a superarlo, con Cesare Claudio Prandelli, che
di stagioni da queste parti ne ha rette ben cinque. Sappiamo tutti com’è andata
a finire, “si cerchi un’altra squadra” proprio la sera di Liverpool. Qualcosa
non funziona nel rapporto degli imprenditori marchigiani con i loro dipendenti
in tuta da calcio. Ce ne accorgemmo allora, quando l’illusione di una proprietà
che credevamo diversa svanì nello spazio di una nottata e di un girone di
ritorno.
Nel 2002, doveva essere Eugenio Fascetti a guidare la Fiorentina retrocessa in
B di Vittorio Cecchi Gori. Ma la B diventò C2, la Cecchi Gori Productions
diventò una società fallimentare, ed al suo posto la Giunta Domenici tirò
fuori dal cappello messole in mano dalla politica romana il Gruppo Tod’s. Che
all’inizio ebbe il merito di inventarsi in soli 20 giorni società e squadra.
Giovanni Galli ingaggiò l’ex compagno di quasi-scudetto Pietro Vierchowod, per
dare la scalata alla C1.
Pietro durò nove giornate. Allenatori non ci si improvvisa, ed il
russo scoprì a sue e nostre spese di non avere l’esperienza ed il carisma per
portare Riganò & C. ad una marcia trionfale. Al suo posto fu chiamato il
navigato Alberto Cavasin, che in C2 se la cavò egregiamente. Dalla C2 alla B, grazie ai
meriti di blasone, il passo però fu troppo breve, e nel febbraio 2004 anche
Cavasin fu giudicato non all’altezza del compito. In serie cadetta, la squadra
era quattordicesima, Firenze voleva la serie A, l’azienda pure. Arrivò il
mister tifoso Emiliano Mondonico, vecchio filibustiere di tutte le serie.
Mondo vinse lo spareggio, ma se ne disperò quasi. Aveva annusato che l’aria
di Viale Manfredo Fanti era diventata pesante per lui e per gli eroi venuti su
dalla C2. Anche lui arrivò fino al novembre successivo, poi passò la mano a
Sergio Buso, allenatore fino a quel momento dei portieri. Il povero Buso resse
tre mesi, finendo vittima di logiche di sistema che andavano al di là dei suoi
demeriti. La Fiorentina dei Della Valle era stata antipatica da subito all’establishment
di quella serie A che aveva appena riconquistato. A Genova finì la partita in
otto, tanto per gradire. Altro che cattivi pensieri, come quelli che vennero al
Grande Timoniere Dino Zoff. Che comunque portò la squadra in salvo con una rimonta
alla Chiappella.
E venne Claudio Cesare, vide e vinse. Quarto posto, Champion’s League
e Toni Scarpa d’Oro. Peccato che il conto di Calciopoli arrivò proprio quell’estate.
Meno quindici, e tanti avvisi di garanzia. A Folgaria quell’anno al raduno c’era
solo lui. Diventò per la Fiorentina una specie di Alex Ferguson, salvando la
squadra e portandola al terzo posto virtuale. Ma i Della Valle non tolleravano
i Ferguson, al massimo i Cognigni. E quando un bel giorno Prandelli chiese
conto dei proclami di vittoria entro il 2011, gli fu risposto dal patron
Diego in persona: “lei è l’allenatore? E allora pensi ad allenare”.
A novembre 2009 il giocattolo di Prandelli andò in pezzi. Società
improvvisamente demotivata, calciatori che ressero di nervi fino al furto di
Ovrebo a Monaco. Poi fu Caporetto, 17 sconfitte stagionali. Prandelli la squadra
se la trovò davvero, era la Nazionale, nientemeno. Ad ottobre dell’anno dopo,
in visita a Firenze con gli azzurri, Andrea Della valle lo accolse con la
storica frase “Un giorno mi ringrazierai”. La risposta di Cesare fu altrettanto
storica: “Se vuoi posso farlo anche adesso”.
Sinisa Mihajlovic aveva soprattutto la colpa di venire dopo di lui, l’allenatore
più amato dai fiorentini dopo Bernardini, Pesaola e De Sisti. Il serbo aveva
poca esperienza, come già Vierchowod dieci anni prima, e non aveva ancora
grandi idee di gioco. Pagò per sé e per tutti sempre di novembre (mese
maledetto per gli allenatori, viola e non) nel 2011. Gli fu fatale l’ennesimo
pareggio in una annata che ne vide un visibilio.
Dentro Delio Rossi, aziendalista senza azienda. Via i campioni a cui
si stava spegnendo la luce, squadra che affondava nelle parti basse della
classifica. Con il Novara in casa a tre giornate dalla fine, il dramma dei
cazzotti a Llajic e dei due gol ospiti che stavano spingendo i viola di nuovo
in B. Al risultato ci pensò il reprobo Montolivo. A salvare Rossi non poteva
ormai pensarci nessuno. Le ultime due giornate in panchina andò Vincenzo
Guerini, anche lui ripagato a tempo debito con un bel calcione nel fondo
schiena.
Sotto con Vincenzo Montella, un’altra scommessa. Questa volta vinta, perché fu
dotato di giocatori validi, con motivazioni di rivalsa forti. Tre quarti posti
a fila, due partecipazioni alla Europa League molto buone (con possibili risultati
ancora migliori sfumati per ingenuità, contro Juventus e Siviglia), una Champion’s
League mancata di un soffio grazie alla supponenza di Pizarro contro l’infame
Montolivo.
Anche Montella, come Prandelli, ebbe l’ardire di chiedere in sede se
eravamo questi e questi restavamo, o se invece potevamo fare il benedetto 31
dopo il 30. Gli fu risposto che poteva rimanere al mare. Mentre partiva l’ennesima
campagna plusvalenze, la società pescava l’oscuro Paulo Sousa, fresco vincitore
del campionato svizzero a Basilea, che la gente però ricordava piuttosto per
essere stato uno dei gobbi di Lippi.
La Fiorentina partì a razzo nella stagione 2015-16, la gente perdonò
volentieri il gobbismo passato a Paulo Sousa e il depauperamento tecnico del
parco giocatori alla società. Fino a Natale la squadra era prima o giù di lì. A
gennaio, auspicava il tecnico prima ancora dei tifosi, qualcuno si sarebbe
frugato in tasca per rinforzarla e tentare fino in fondo di ripetere qualcosa che
non succedeva più dal 1969.
Tino Costa, Kone, Benalhouane. I sogni muoiono sempre all’alba del 1°
febbraio, in Viale Manfredo Fanti. Girone di ritorno da scoppiati, come l’ultimo
di Prandelli. Fiorentina che terminò quinta con fatica. La gente si aspettava
che il tecnico deluso rassegnasse le dimissioni, ma egli preferì lo stipendio e
rimase a mugugnare e mischiare le carte già sparigliate dal ritorno di Corvino
e dalla ripresa dell’Età d’Oro delle Plusvalenze.
Il resto è storia attuale. Che ci riporta al tema iniziale. Compare lo
striscione che inneggia al boia, ma la testa è quella sbagliata. Il maggiordomo
ha colpa fino ad un certo punto se il servizio è scadente, non parliamo del
governo. I tempi si fanno di nuovo cupi. Dopo 14 anni, l’11° allenatore sta per
l’undicesima volta per concludere malamente il suo rapporto con il suo datore
di lavoro e nostro patron.
Avrà mai la gente di Firenze il coraggio di consegnare al boia
(metaforicamente parlando) la testa giusta? Quella del Re?